Intervista a Antonio Celano. Il mestiere dell’editor
Di Geraldine Meyer
Continua la rubrica I mestieri del libro, nata per farci raccontare cosa c’è dietro un libro, il lavoro che si svolge prima del suo arrivo in libreria. Oggi parliamo con Antonio Celano per scoprire il suo lavoro di editor.
Buongiorno Antonio. Ci vuoi dire quale è stato, fino a questo momento, il tuo percorso professionale?
Buongiorno a te e grazie. Sono nato più di cinquantacinque anni fa in una regione periferica come la Basilicata, e non è una banalità. Castelluccio Inferiore, il mio comune di nascita, sia pur vivace, è un luogo posto a una distanza di almeno centocinquanta chilometri da qualsiasi capoluogo regionale più vicino, quanto di più lontano da qualsiasi ambiente culturale con una sua pur minima e strutturata identità. Certo era sempre raggiungibile dalle rotte dei rappresentanti della Fabbri, tanto per dirne una. E mi incantavano, si capiva che vendevano qualcosa che li faceva sentire un po’ dei missionari. Ma voglio dire che, provenendo da là, il mio percorso non avrebbe potuto che essere carsico o frastagliato. Eppure, una fortuna l’ho avuta: mio padre, ex contadino, col placet di mio nonno (e non era proprio scontato), nel 1972 riuscì a laurearsi a Salerno. Fu lui che mi introdusse al piacere della lettura e della scrittura finché una volta, nel 1977, durante un mio viaggio a Firenze ebbi modo di conoscere “Sor Enrico” Vallecchi, ancora di una sua aurea circonfuso. Sono date che considero importanti perché preparatorie del mio incontro con l’oggetto libro. Tuttavia, molta parte dei volumi che circolavano in casa mi stupivano e un poco mi frustravano: erano di mio padre e, a quell’età, ci capivo il giusto. Una volta mi capitò in mano il feltrinelliano Wirrwarr di Sanguineti. Cos’erano tutte quelle vocali sparse, quei segni d’interpunzione esplosi, quei versi, frammenti scalari e afasici? E tuttavia mi piaceva rivoltare tutti quei libri, cercarci dentro qualcosa. Finivano per nascermi esagerate passionacce praticamente per tutto: l’astronomia, gli insetti, le invenzioni, le culture precolombiane… un eterno innamorato. Come erano fatti, però, i libri? Ecco, la loro struttura esterna e interna. Insomma, finii per fabbricarmene da solo tagliando dei fogli A4, spillandoli e scrivendoci su con la vecchia Olivetti di mio padre, inventando copertine, alfabeti e discorsi. Imitando, scovando. Imparai tanto per curiosità e quasi per osmosi a volte solo sfogliando. Scrivevo raccontini, poesie; mi provavo. Poi i primi grandi romanzi, i classici, ma sempre con tanta attenzione alle opere minori o meno conosciute dei grandi e ai negletti scrittori “minori” e “inattuali”, che poi tanto minori e inattuali non sono mai (a volte, con successi alterni, sono riuscito a farne ristampare di dimenticati). Dove andò a finire tutta quella roba? Come canta Fabri Fibra, in quel periodo “non ho mai smesso un giorno di fantasticare / non ho mai fatto grandi successi in generale” e, per giunta, a scuola non sono mai stato lineare nel rendimento, anzi. Eppure, riemergendo dall’oblio e intrecciando mille altre strade, avevano formato un gusto e un’attenzione alle strutture, anche della scrittura, l’equilibrio dei paragrafi, dei capitoli, dello stile. Mi sono laureato tardi in Storia Contemporanea a Pisa (con professori quali Pavone, Banti, Bodei, Cafagna, Mirri, Prosperi, l’ultimo Walter Siti pisano ecc.) dove iniziai a collaborare ad alcune riviste studentesche e a fare qualche piccolo lavoro a chiusura di opere accademiche (per esempio, gli indici analitici) e guide turistiche. Dopo queste esperienze ho avuto l’opportunità di lavorare in qualità di segretario di redazione ed editoriale, poi come editor e ufficio stampa di una casa editrice fiorentina piuttosto grande (una cinquantina di addetti), tra libri e periodici (anche quindicinali). Là ho ritrovato molti vecchi “vallecchiani” (provenienti anche da esperienze quali “Il Ponte” e “Studi Novecenteschi”) che mi hanno insegnato tutto in dieci intensi anni di apprendistato. È là che ho imparato un’etica del lavoro e la cura. In seguito ho anche lavorato per librerie e tipografi, seguendo corsi dove posso, imparando ancora. Ed eccomi qua, free lance, precarizzato, spesso costretto a fare anche altro e non so quanto felice, ma vivo.
- Il lavoro dell’editor, importante e delicato. Qual è l’aspetto più complesso di questo lavoro? Quanto è importante sapere mediare tra le esigenze di chi scrive e quelle dell’intervento sul testo? Stile, scrittura, personaggi, dinamiche interne, coerenza: sono tanti gli aspetti da tenere in considerazione. Pensi che ci sia uno di questi più importante degli altri?
Come ti ho accennato ho lavorato, da editor, sia all’interno che all’esterno delle case editrici. C’è una grande differenza, a mio avviso. Oggi accolgo il dattiloscritto prima che vada al vaglio di un editore. Questo significa che a me interessano, al momento, il romanzo o il saggio in quanto romanzo e in quanto saggio, cioè (fin dove possibile) come atto creativo “puro” dell’autore. Tra tutti gli aspetti che suggerisci da tenere in considerazione, quello che è per me di maggiore complessità (in quanto interrelazione in e di un tutto) è la “voce” di un autore. Ce l’ha? Non ce l’ha? Non l’ha ancora trovata? Potrebbe? Quanto è diversa da quella di altri scrittori? Quanto è forte? Questo mi interessa molto. Certo, tutto il resto, prima, ci deve essere: la storia, la scrittura, l’equilibrio o un voluto squilibrio, lo stile ecc. Per cui editare è sicuramente “correggere”, “strutturare meglio”, “sfrondare”, “limare”, “migliorare”, un’opera, ma soprattutto è “servire”, “accudire” e “accompagnare”, il dattiloscritto e il suo autore alla ricerca della sua specifica identità, in altre parole alla scrittura (attraverso riscritture) di un testo che sia vero fino in fondo per chi lo scrive e vitale, accrescitivo per chi lo legge. Bisogna capire che, attraverso la sintassi, il periodare ecc., comprendiamo i meccanismi dell’opera, ma non tutto il nostro lavoro si esaurisce con l’applicazione di una pedanteria. Siamo di fronte, almeno nei casi più importanti, a strutture delicate e profonde dell’invenzione che vanno capite e ben interpretate. Dirò di più. L’esercizio fondamentale cui è chiamato un editor è quello di auto-estraniarsi rispetto al testo per mettersi nella scia del suo stesso punto di vista. Ma, attenzione, mai così tanto da condividere con lo scrittore sviste egocentriche e autoreferenziali.
Detto questo, vorrei aggiungere un paio di questioni che mi stanno a cuore.
La prima. Nonostante abbia collaborato con autori di un certo rilievo (non sto a citarli, ché ho una certa ritrosia a esporre i “labari del Comune”), non sono mai stato supercilioso con altri di diverso o minore talento. Lo trovo stupido e inutile. Perché, se faccio mia la visione di servizio che sostengo e se agisco su un testo prima del suo arrivo in una qualsivoglia casa editrice, devo aiutare ogni testo che accetto (e ne scarto moltissimi, sia chiaro!) a essere il miglior testo possibile. Un merlo non è un grande rapace, ma che vuol dire? L’importante è che sia pienamente capace di volare e vivere a suo modo e che l’autore sappia cos’abbia per le mani. Non farà caccia di alto volo; è importante, invece, che possa trovare la sua nicchia ecologica, quei luoghi dove spesso i rapaci non possono andare senza soccombere.
La seconda e più importante. La posizione da editor free lance che occupo ora non fa di me un apostolo idealista e alienato della scrittura. Ho detto di aver lavorato in casa editrice e questa esperienza, per me, è stata fondamentale, perché mi ha dato modo di conoscere la filiera fin dove sfocia. Un editor in casa editrice è chiamato a valutare maggiormente il libro come prodotto commerciale. Sarebbe una follia se non lo facesse. Una casa editrice, lo dice molto bene Gian Carlo Ferretti, è un delicato meccanismo industriale economico e commerciale e non, come vorrebbe qualcuno, una “Fatebenefratelli” pro domo sua. Se non fattura, se non vende, chiude e non solo l’editore va a casa. Ecco, io questo problema me lo pongo, anche se il cosiddetto mercato librario è diventato una giungla con parecchi punti di squilibrio rispetto a quanto acutamente colto da Ferretti. Il libro deve vendere, trovare un proprio spazio commerciale, e nell’operazione di editing (anche la mia, ed è una delle cause principali per cui scarto molti testi) ne va tenuto conto non poco. Ma, mi chiedo, tutto deve vendere allo stesso modo? È utile, seguendo questa pista concepire l’appiattimento completo del gusto del lettore? Ma è un altro ragionamento che coinvolge anche le differenze tra piccola, media e grande editoria.
- Editing, spesso, questo sconosciuto. Capita di leggere libri a cui, palesemente, nessuno ha messo mano per revisionare, suggerire, correggere, proporre. È solo un motivo economico quello per cui talvolta un editore si limita a fare lo stampatore?
Ah, ma alcune volte mi è capitato anche di dover intervenire su precedenti lavori. E spesso io stesso non ci ho dormito la notte: ho fatto tutto ciò che dovevo? l’ho fatto bene? in cosa posso aver mancato? Spesso sospettando di me stesso, mettendomi sotto processo. Poi ho capito anche che ci sono visioni e approcci diversi tra vari editor ed editing. E tutto questo mi è servito per trovare un mio modus e un mio posto. Detto questo, il problema che tu poni sotto i riflettori affligge soprattutto la piccola editoria: editori che non leggono i testi o non li fanno leggere o li fanno leggere a persone incompetenti o inadeguate (o tutt’e due) oppure pubblicano proprio di tutto. Però – e qui parlo da un punto di vista più redazionale – anche in case editrici più grandi si sono fatti moneta comune mozzini, orfane, vedove, solecismi involontari, correzione di bozze approssimative. Mi pare ovvio che intervengano in certe situazioni le condizioni del mercato in cui sono costrette a muoversi le case editrici. Ma non sempre. Un problema complesso che va visto caso per caso.
- Ti è mai capitato di dover rinunciare a un editing perché l’autore o l’autrice non hanno accettato i tuoi suggerimenti?
Certo! A volte con amarezza. Quella che soffro di più è la rinuncia imposta da un cambio repentino di atteggiamento dell’autore a lavoro già largamente stabilito e avviato. Non che non sia possibile cambiare idea – figuriamoci! – ma di solito è capitato con modalità spiacevoli. Quasi come se tu fino a quel momento, sotto traccia, avessi remato contro il testo e l’autore, che intanto ha cominciato a porre in mezzo distinguo e paletti a difesa del suo testo, si sentisse in dovere di riprendersi l’opera malamente deturpata.
Altre volte ci sono interruzioni con riprese, perché bisogna dire senza peli sulla lingua, sia pur con gentilezza. Mi sono capitati alcuni editing portati fino a un certo punto, con strade poi divaricatesi in “separazione consensuale”. Ma è vero che accetto di prendermi cura di lavori che altri editor hanno rifiutato (se ci vedo dentro) o di fare da sostegno psicologico a scrittori che si sono bloccati sulla pagina. La casistica è varia e certo devo metterci anche il mio carattere, mi ripeto spesso per migliorarmi. Va bene limare un egocentrismo, ma è bene pure non far prevalere il proprio su quello di un altro.
- L’editing è sicuramente una forma di cura che misura, anche, lo stato di salute di case editrici e mondo editoriale in genere. Com’è, secondo te e da questo punto di vista, lo stato dell’arte?
Delle piccole case editrici ho detto. Delle grandi ne accennavo prima, ma riprendo per chiudere il discorso. Da storico di formazione mi piace molto studiare la storia dell’editoria. Ebbene negli anni Sessanta/Settanta, anni d’oro per questo comparto industriale, tanto da essere percepiti come mitici e irripetibili da parte degli storici che quelle vicende sono andati ricostruendo, si sono generate delle contraddizioni che sono venute al pettine. Per usare, riadeguandole, le parole di un giovane Umberto Eco, “il dominio mercantile” non permette più alla cultura “come oggetto di mercato” di sottrarsi alle sue maglie, squilibrando quel punto aureo di equilibrio individuato tra qualità e “cassetta” da Ferretti. In altre parole, per raggiungere margini di guadagno che ne sorreggano la ratio commerciale, le grandi case editrici costringono progressivamente il prodotto libro a sdraiarsi sulla cultura e i gusti di un presunto “lettore medio” che di fatto non può esistere, col risultato tendenziale di abbassare sempre di più la qualità delle opere proposte in catalogo (o ciò che ne rimane). Nei casi più vistosi si prende un dattiloscritto, se ne spiana l’italiano come asfalto, se ne tolgono tutte le parole che superano un vocabolario che possa andare oltre le trecento parole d’uso quotidiano, tutti i termini sospetti di connotare alcunché, il pur minimo accenno a una digressione o a tutto ciò che non sia riconosciuto come sviluppo della trama, alla fine non capendo più se è il “lettore medio” a comprare quel libro (leggerlo è operazione successiva e ne va valutato lo iato) o è il “libro medio” a farsi comperare da un proprio lettore al quale il libro, in definitiva, neanche servirebbe se non per escapismo. Parliamoci chiaro: anche io ho letto con curiosità i “Confidenze” e le “Amica” di mia madre e poi qualsiasi Liala e “Cronaca Vera” trovato in giro e i fumetti di “Intrepido e “Lanciostory” (un viatico fondamentale per capire il popolare di largo consumo all’italiana). Ma non è questo il punto, se il problema è mettere la testa ogni tanto fuori da questo mare magnum e averne certa contezza. Comunque sia, tornando al punto, per fortuna non è sempre così e, in questo frangente, molta parte della resistenza è offerta dalle piccole e medie case editrici o dai grandi editori dove ancora trova spazio una qual certa autorialità, sia pure oggi a scapito delle collane.
- Tu sei anche direttore di collane. In questa parte del tuo lavoro, da dove parte il tutto? Cioè da dove arriva l’idea di una collana e quale sono i passi successivi?
Sì, dirigo un paio di collane per due piccoli, ma interessanti editori. L’idea di collana può partire da un’idea del suo curatore oppure attraverso un confronto interno alla casa editrice, con consulenti esterni, persino durante chiacchierate con gli amici. Certo poi va chiarito quello che oggi si chiama il suo concept, il progetto al quale la collana deve adeguarsi. In seguito mettersi in cerca, a seconda delle risorse a disposizione, degli interpreti della collana stessa. Devo dire che ho trovato sulla mia strada due editori estremamente coraggiosi che mi hanno sempre lasciato libertà di scelta riguardo ai titoli e agli autori, anzi lasciandomi, entro certi limiti, a sperimentare. Per esempio, con una delle due collane ho messo a frutto la mia esperienza di redattore: ho scelto il carattere, lo stile paratestuale, cosa mettere in quarta e in bandella (me le scrivo io, è un esercizio importante!) ecc.
- Quali sono le collane che stai curando adesso?
La prima che, purtroppo, ha risentito di più dei disagi creati dalla pandemia da Coronavirus, è “Parole dell’arte” stampata per i tipi della livornese Sillabe, editrice specializzata in editoria d’arte. Si tratta di una tascabile che vuole recuperare, in maniera nuova, la tradizione italiana del reportage critico di impostazione giornalistica e letteraria. A ogni autore, tutti di provata sensibilità ed esperienza, propongo di narrare l’esperienza di un artista direttamente frequentato o amato o con cui si è potuto misurare analizzandone, con la sensibilità che gli è propria, aspetti biografici, arte e stile.
La seconda, sostenuta dall’Associazione “Qulture” di Carrara e stampata da Felici Editore in Pisa, è “AcquaRagia” che, riprendendo un concetto espresso da Tomasi di Lampedusa, cerca di proporre narrazioni (di esordienti o poco più) che riescano a sverniciare le mani di tintura sotto cui sono stati nascosti i nodi e i difetti di un legno che si credeva «già curato e piallato». In altre parole, le illusioni e i miraggi cioè, del secolo scorso, così come le angosce che questo inizio di millennio ha posto al centro delle attenzioni della nostra e delle future generazioni. Questa è la collana che più mi permette di sperimentare e proporre forme del romanzo oggi piuttosto inattuali. Il resto, quel che ho scritto io, troppo poco, in verità, è in un mio vecchio blog ormai in disarmo (www.antoniocelano.wordpress.com), ma l’archeologia a volte ha un suo fascino: sono i miei brevi ritorni a Chichén Itzá, in Cappadocia, a Písac…
In copertina Antonio Celano in una foto presa da LetteratitudineNews