Black Dogs
di Paolo Umberto Pasquon
Finalmente poteva tornare a casa, pensò tra sé, spegnendo la macchina del caffè e muovendosi verso l’uscita in fondo al locale. Era stato un venerdì sera faticoso. Le facevano male i piedi dopo tutte quelle ore trascorse dietro il bancone del bar a servire clienti di cui, in quel momento, non ricordava più niente. Facce anonime, capitate lì apposta o per caso, alla convulsa ricerca del loro Prozac personale: una birra, un cognac, una vodka. Tanta vodka. Si avviò verso casa, portando con sé la puzza di fumo, sudore e alcool, che ormai le era diventata quasi una seconda pelle e di cui si liberava solo dopo un’ora di doccia. Non ce la faceva più a fare quella vita insulsa e
piatta che le divorava la giovinezza, che le seppelliva i sogni e che le asfaltava la bellezza.
Lira sapeva di essere bella, lo vedeva negli occhi bramosi degli uomini e in quelli invidiosi delle donne. Una volta le avevano detto che assomigliava come una goccia d’acqua a Giulia Roberts e s’era chiesta se davvero avesse la bocca così grande. Camminava con passi veloci stando attenta a non calpestare con gli anfibi i mucchi di sporcizia abbandonati qua e là sul marciapiede reso umido dalla pioggia caduta quel pomeriggio. C’era un’aria da Nord che, nonostante fosse ormai primavera, la fece rabbrividire nel giubbino giallo acido in eco-pelle scamosciata. I capelli castani e tagliati corti e pettinati in avanti, le si attorcigliavano sul viso come una ragnatela. Ad un angolo della strada, poco lontano, scorse una puttana che parlava con un tizio in macchina,
probabilmente contrattando sul suo compenso. Più in là, un ragazzo e una ragazza, troppo giovani per essere lì a quell’ora, infagottati in giacconi di tipo militare più grandi di almeno due taglie si stavano scambiando qualcosa, nascosti nella penombra dell’entrata di un palazzo. Droga, concluse subito, notando i gesti furtivi e veloci dei due e dallo sguardo distante e assente prima, feroce e malato poi, che le lanciarono quando passò loro accanto. Lira accelerò il passo e si strinse ancor più nel giubbino, infreddolita dall’aria che le accapponava la pelle. E’ tutto uno schifo, che città di merda, pensò, anche se questo l’aveva già capito una notte di due anni
prima. Quella notte maledetta, quando erano venuti a bussare alla loro porta. Erano in due, un uomo e una donna, con le facce pallide e prive di espressione di chi ne ha viste troppe
per lasciarsi emozionare da ciò che era accaduto. Non li conosceva. Aveva parlato lei per prima, con la solita litania di circostanza; disse che suo padre era morto. Morto ammazzato. Sergej Littmannen faceva il poliziotto e aveva solo quarantacinque anni. Stava indagando su di un traffico di droga dai paesi ex URSS, che la mafia russa aveva messo in piedi nella loro città, trasformando Libau nel centro nevralgico di quel mercato assai redditizio. Da bravo poliziotto, s’era avvicinato troppo alla verità, e questo ne aveva segnato la fine. Così dissero al
termine di indagini frettolose e senza un colpevole. Gli odori che sentiva dispersi nell’aria e quelle immagini di desolazione umana che la costringevano a ricordare, le crearono una sensazione di smarrimento e alienazione tale che le si bloccò il respiro e la fecero ansimare quasi le mancasse l’aria nei polmoni. E adesso c’era anche la guerra all’orizzonte. Facendosi forza, scacciò i pensieri e notò che la strada si faceva sempre più buia. I lampioni e le insegne
luminose dei locali notturni, non riuscivano più a rischiarare quel mondo, quella città, che stava
sprofondando sempre più nelle sabbie mobili della illegalità più sfrenata e prepotente, dove anche la notte assumeva un nuovo significato. Guardò il Casio che era stato di suo padre e vide che mancavano solo dieci minuti alle due. Si chiese se Mara, stesse dormendo o se fosse ancora sveglia ad aspettarla. Sua sorella era fatta così. Un giorno, dopo che s’erano scannate per uno stupido paio di scarpe che Lira le aveva preso senza chiedere, Mara le regalò un paio di anfibi. «Questi sono più adatti a te», le disse abbracciandola. Del resto, tra sorelle succede spesso così.
Lira schivò una pozza d’acqua e stizzita scalciò una lattina di birra vuota che andò a sbattere contro un muro poco distante, facendo scappare, con un miagolio di protesta, un gatto appostato nell’ombra. Svoltò verso l’ultimo tratto di strada e s’accorse che le luci, da quel lato erano tutte spente. La cosa non la preoccupò più di tanto, c’erano sempre dei balordi che si divertivano a romperle, cosi, per il semplice gusto di farlo. Quel mese era già accaduto altre tre volte. E non la preoccupò neppure che, dall’altra parte, fossero apparsi dal nulla due tizi che andavano nella sua stessa direzione. Pensava a Mara, e a tutto il suo dannarsi per il lavoro e per far andare le cose dopo che la loro madre, in preda ad una delle sue solite crisi isteriche, era stata ricoverata il una clinica psichiatrica. Da sei mesi stava così, e non si vedevano, ancora, miglioramenti. Mara sperava che la “cosa” si risolvesse, in qualche modo, anche se spesso Lira l’aveva colta mentre fissava in silenzio fuori dalla finestra, assorta in chissà quali pensieri. Poi, si girava a guardarla e le sorrideva, come se quello che aveva appena visto, per un attimo, le avesse alleviato le sofferenze che si portava dentro. Lira, avrebbe voluto che tutto tornasse come prima. Ma la vita non ti concede l’uso del tasto rewind. Uno scatto secco la richiamò alla realtà, e girandosi, s’accorse che i due di prima s’erano spostati dalla sua parte. Affrettò il passo e non si voltò più per paura di quello che avrebbe potuto vedere. «Ehi, quanta fretta gattina», disse una voce alle sue spalle, «dove vai così di corsa? Aspetta, vieni qua », continuò quasi ansimando le ultime parole. Lira si dette della stupida per non aver accettato il passaggio in macchina che Olga le aveva offerto. “Sono solo due passi e stasera ho voglia di camminare”, le aveva detto prima di andare. Li udì parlottare sottovoce per alcuni istanti, poi non sentì più nulla.
Quel silenzio, rotto solo dai latrati lontani di un cane, la preoccupò ancor più delle parole di prima perché significava che avevano deciso. Iniziò ad aver paura davvero. Trecento metri, forse meno ed era a casa, pensò, col cuore le pulsava forsennatamente in gola. Poco lontano vide passare un’ambulanza a sirene spiegate seguita da numerosi mezzi di soccorso e anche
da alcuni strani automezzi militari. Con la gola stretta dall’ansia e dalla paura, accelerò verso il portone di casa che ormai era vicino. Per un attimo, credette di essere in salvo, poi si sentì afferrare da dietro e fu come se il mondo intero le si precipitasse addosso. Si mise ad urlare disperata ed iniziò a divincolarsi a destra e a sinistra agitando braccia e gambe nel disperato tentativo di liberarsi da quella presa. «Sono io, Lira, sono Mara, che ti succede, che ti prende?»
Lira a quelle parole smise di agitarsi, e si voltò con le lacrime agli occhi, mentre il rimmel le colava sul viso tracciando delle sottili linee nere che andavano trasformando il suo viso in una grottesca maschera di dolore. «Che ti succede», continuò l’altra stringendola in un abbraccio, «ho provato a chiamarti un sacco di volte, ma eri come in trance, non sentivi nulla, sembravi quasi uno zombie». Lira non seppe cosa rispondere, e provava vergogna come quando da piccola era stata scoperta a mangiare di nascosto le noci dall’albero dei vicini. Guardò imbarazzata la sorella e scosse il capo. «Non potevo, c’erano due che mi seguivano», disse sussurrando, ed indicando oltre le sue spalle, «volevano farmi del male, lo so, e non ho capito più nulla». «Due che ti volevano far del male Lira?, ma dove, io non vedo nessuno».
«Sono là, in fondo, dietro quell’angolo, li ho sentiti che parlavano di una gattina, e volevano che mi fermassi». «Lira, è mezz’ora che sono qui, e ho visto passare solo il signor Palle e suo figlio che andavano a fare il pane». «Ti sbagli», disse Lira quasi sibilando con gli occhi sbarrati, «li ho sentiti bene, dicevano:“dove vai gattina tutta sola, vieni che ti facciamo noi compagnia”, con una voce, una di quelle sai!» «Ma dai Lira, il signor Palle va matto per i gatti, e poco fa ho visto passare la gatta della signora Check, quella tutta rossa, forse stava chiamando lei. Anzi, penso proprio che sia andata così. Del resto, se ti giri, vedrai che non c’è proprio nessuno che ti insegue». Lira facendosi forza, si voltò e vide che la strada era proprio come le aveva detto sua sorella: assolutamente vuota, a parte una gatta dal pelo rosso, che se ne stava tranquillamente appollaiata sul muretto del negozio di pane del signor Palle. «Che ti succede, Lira, perché fai così?», disse Mara. Lira non rispose, se ne stette in silenzio riflettendo su quanto era accaduto.
Poi come presa da una scossa improvvisa iniziò a parlare. Diretta senza pause, senza freni, senza rete. «Mara, non ce la faccio più, mi sento svuotata da tutto. Il solo pensiero che domani sarà una giornata come oggi, mi fa impazzire. Poi, succede che vedo e sento cose che non ci sono. Mi pare di precipitare verso una voragine senza fondo, da cui non c’è ritorno. Ho paura di fare la fine della mamma, ed essere rinchiusa in un posto come quello. Voglio andarmene da qua».
«A te non succederà, te lo prometto», disse Mara accompagnandola in casa. «E’ che questa città non ci lascia scampo», continuò Lira con la voce ridotta ad un filo. «Non c’è speranza, prima papà, poi la mamma» . Giunte in casa, Lira si gettò di peso sulla poltrona in cuoio che era stata la preferita di suo padre, e ricominciò a piangere, in silenzio. Mara tornò dalla cucina con una tazza di latte caldo e quasi, obbligò Lira a berne almeno un sorso. «Ti farà bene», le disse porgendole la tazza. Dopo alcuni minuti rotti solamente dal tic tac dell’orologio a muro, Mara fissando sua sorella disse:«Lira, è un pezzo che ti volevo parlare, di quello che è accaduto a papà e alla mamma e di noi due. T’ho osservata e ho visto quanto male stai. Sono tua sorella e so cosa stai provando, ma penso che tu non stia reagendo nel modo migliore. Mi preoccupi, ti vedo assente, distante, quasi non ti importasse più di nulla e di nessuno». «Faccio brutti sogni, degli incubi Mara, quasi ogni notte, da ormai un mese». «E cosa sogni, me lo vuoi dire?» «Sogno di morire, sbranata da un branco di cani neri, con gli occhi rossi». «Sempre lo stesso sogno?» «Sempre lo stesso». A Mara sentendo quelle parole, si strinse il cuore e si convinse ancor di più di aver preso la decisione migliore. E quello era il il momento giusto per parlarne con lei. «Lira, che ne diresti di fare un viaggio, così, senza pensieri, e lasciarci per un po’ alle spalle tutto il resto? ». «Si, un viaggio», disse Lira con una nuova luce negli occhi. «Andiamo a Venezia, Mara, dove papà
sognava di portarci da piccole». «E Venezia sia», acconsentì l’altra abbracciandola, «e adesso vieni, andiamo a dormire.» «Quando partiamo?», volle sapere Lira prima di addormentarsi.
«Lunedì parlo con Elga, quella che organizza i viaggi, e vediamo se riusciamo a trovare qualcosa, magari anche per la prossima settimana. Elga riesce sempre a rimediare un passaggio. Anche con quello che sta’ succedendo». «Non m’importa come, ma fai che sia presto», fece Lira chiudendo gli occhi. Mara la osservò addormentarsi, poi si girò dall’altra parte e si fece il segno della croce. Fuori cominciava ad albeggiare mentre in lontananza alte colonne di fumo si alzavano minacciose verso il cielo e l’aria veniva solcata dal lugubre suono delle sirene d’allarme.
Fine
L’immagine di copertina è Incubo, di Johann Einrich Fussli, 1871. Foto presa da wikipedia