Il ritorno variato
Di Vladimir d’Amora
I pezzi di Vladimir D’Amora pubblicati da noi sono scelti e selezionati da Piero Dal Bon, critico letterario, saggista e traduttore (NdR)
Una torna da una clinica bianca come il gesso classico, dove il dolore pure sta immacolato, indorato, e che si ritrova? Una famiglia che dorme, ecco ciascuno a ronfare per sé, senza la minima idea della mia testa. Entrai in camicia lunga, ero ‘na panna di femmina, qualche trina, qua e là, vestivo così da giorni. Mormorai un saluto, forse due, e di nuovo a letto, anzi sul letto distesa, sempre sul lato mancino, lenzuola linde, per requie e sonno.
Il soffitto soffriva ormai con me, ai miei rantoli le sue macchie, pure inavvertibili, dal bianco al pallore, passando per tutta la sacrosanta teoria dei grigi. Un soffitto lineare come lo può essere una serpe, ma non mi venne in testa. Restai per attimi smorfiosi, attimi recalcitranti, mi persi nella sua fine, monocromatica quasi. Ero straccio fastidioso. Nessuno desto, a chiedermi della vita. Fui io a svegliarmi, mi scoppiarono vene e arterie, coll’arcangelo a succhiarmi coscienza e verità, con la sua tuba d’ottone antico, esiziale.
E fu il sangue che fiottava, mentr’io già sognavo. Erano tutti lì, svegli come grilli molestati e irrequieti. In un emiciclo arlecchinato di guardate vitree, l’uno nell’occhio dell’altro, chiavato ciascuno nella sua ovatta vaporosa e lattea. Svegliati poi da cosa? Il rosso era il mio, e già gli era stata aspirata la sua luce intera. E potei sognare, sognai mio figlio, tutti i miei figli muti a chiedere, a urlare il nome mio. Fu festa acida, festa bagnata dall’irreparabile, colla testa che s’avvitava all’emorragia, sotto quel mio soffitto ancora annuvolato, sempre fermo.