La scelta
Di Luca Mancin
Randy Burch disponeva di appena una frazione di secondo per decidere il da farsi. Aveva intravisto la possibilità di sferrare un gancio alla tempia sinistra dell’uomo che si muoveva affannosamente di fronte a lui.
La bocca era piena del gusto caldo e metallico del sangue e un molare gli pulsava. Una delle sue costole irradiava cerchi concentrici di dolore nel resto del corpo. Eppure, l’adrenalina lo rendeva estremamente vigile e gli permetteva di percepire ogni minimo dettaglio.
Ritrarsi con il rischio di essere colpito nuovamente al volto avendo le spalle al muro oppure tentare il tutto per tutto con quel montante destro alla testa dell’avversario?
Non aveva tempo per riflettere. Doveva fare la sua scelta.
Gli apparse nitidamente l’immagine di sua madre che caricava il braccio e gli sferrava un ceffone. La guancia divampava di dolore e lui provava inutilmente a coprirsi il capo con le mani per evitare i successivi colpi.
«Non mi importa proprio un cazzo di quello che fanno i tuoi amici!», sbraitava la donna con il volto rosso per la concitazione, «Devi imparare a svegliarti, a pensare a te stesso, a smetterla di combinare disastri».
Tentò di colpirlo ancora, con meno vigore. Si abbandonò su una sedia. «Non ne posso più», sospirò stancamente. Rimase in silenzio qualche minuto, prima di riprendere a parlare. «Che diavolo ti salta in mente, eh Randy? Sei completamente impazzito?»
Aveva undici anni all’epoca ed era stato tirato in mezzo dalla sua banda di amichetti. Ewan, il più sveglio e il più forte del gruppo, aveva sgraffignato dei petardi da qualche parte e si pavoneggiava a fargli scoppiare vicino a loro. Tutto a un tratto, con aria grave, Ewan aveva detto a tutti che Randy Burch non sarebbe stato in grado di infilare un petardo dentro la marmitta di una macchina perché era un codardo.
«Da’ qua», aveva detto il secondo strappandogli un magnum dalle mani.
Qualcosa però era andato storto. Randy aveva già visto fare quelle ragazzate, ma lui probabilmente aveva spinto il petardo troppo in profondità nella marmitta. Il botto era stato attutito e la macchina aveva borbottato un po’ prima che delle sottili fila di fumo fuoriuscissero dalle lamiere. I bambini erano scappati, la macchina aveva preso fuoco. Non c’era voluto molto per risalire al piccolo Randy.
Sua madre si alzò e mentre lasciava la stanza strisciando le ciabatte sul pavimento, gli tirò i capelli per costringerlo a guardarla negli occhi. «Se davvero dici che sei stato obbligato, la prossima volta non dare retta ai tuoi amici, di’ di no e vieni via».
Si rivide diciassettenne, che annaspava tra bava e sangue sull’asfalto umido di un vicolo. Le aveva appena prese di santa ragione da Aiden, il bullo delle superiori, e dai suoi compari. Dall’episodio del petardo, Randy aveva tentato di tenere un profilo il più basso possibile ma ciononostante era entrato nelle grazie di quell’ammasso di muscoli che era Aiden. Quello voleva farlo entrare nel suo giro a ogni costo. E per entrare nel gruppo di Aiden, volenti o nolenti, la prova da superare era il furto dell’ultimo modello di cellulare.
«Tu entri, fai un giro di perlustrazione, ti avvicini al telefono, magari crei un diversivo e poi, zac, lo pigli e inizi a correre come un pazzo», gli aveva spiegato Aiden, «Tutto chiaro? Poi me lo consegni e sei dentro, Randy».
Erano nel piazzale del centro commerciale, l’aria era umida dopo il temporale e il cielo di un grigio cupo. Randy, memore della lezione impartitagli dalla madre, aveva declinato l’invito e rifiutato l’offerta.
Aiden gli aveva preso il colletto della felpa e lo aveva strattonato avvicinando il viso di Randy al suo. «Forse non hai capito, coglione», il suo alito puzzava fortemente di tabacco, «Questo non è un invito, questo è un ordine. Entra e ruba quel cazzo di telefono». Lo aveva allontanato con uno spintone.
«No, no, io me ne vado», aveva piagnucolato Randy. E si era incamminato, mentre Aiden e i suoi lo seguivano placidamente. Dopo qualche passo incerto Randy si era messo a correre, ma in pochi metri gli inseguitori gli erano addosso e lo avevano pestato in quel vicolo. Fu in quel momento, tra bava, sangue raggrumato, lacrime e moccio, che decise di iniziare a prendere lezioni di mma per imparare a difendersi e poter finalmente essere in grado di dire di no come gli aveva insegnato sua madre anni prima.
Gli comparve davanti agli occhi la sua espressione appagata, di completa estasi, quando a diciannove anni aveva mandato all’ospedale il suo avversario durante un incontro di mma. Ricordava il piacere che gli pervadeva il corpo dopo che lo aveva colpito ripetutamente con calci e pugni finché quello non si era afflosciato su se stesso. Mentre l’arbitro lo allontanava e un medico entrava nella gabbia, Randy si era sentito onnipotente, pensava di avere il mondo ai suoi piedi.
Scaricare la propria rabbia e le proprie frustrazioni su uno sconosciuto che a sua volta tentava di fargli del male soddisfaceva un piacere atavico, un istinto animalesco che non riusciva ad appagare in nessun altro modo. Amava sentire il cuore rimbombare nella cassa toracica, il fiato corto, il sudore che colava sul petto e giù lungo i fianchi. Era come una droga. Più colpivi e più venivi colpito, più ne volevi ancora. Randy temeva che prima o poi avrebbe sentito l’esigenza di sfogarsi anche fuori dal ring.
Nel suo intimo sapeva che aveva cominciato a frequentare quella umida palestra di periferia con un solo obiettivo: farla pagare ad Aiden. Negli ultimi due anni si era messo ad allenarsi ossessivamente, aveva imparato tattiche e strategie, sapeva dove colpire per far male, sapeva dove colpire per uccidere.
Dentro di sé era certo che prima o poi gli sarebbe capitata l’occasione di vendicarsi.
Quelle tre istantanee attraversarono in una frazione di secondo la mente di Randy, il tempo necessario perché il suo cervello decidesse di far partire il montante destro e le sue nocche impattassero con forza e precisione la tempia dell’uomo di fronte a lui. Le pupille di quel tizio furono attraversate come da un ultimo, estremo lampo. Poi i suoi occhi si appannarono e dopo un momento di indecisione il corpo si accasciò a terra.
Randy non sapeva chi diavolo fosse quell’uomo, ma era ubriaco ed era tutta la sera che si atteggiava in giro per il locale con fare da spaccone. Battibeccava con gli altri clienti, provava a palpeggiare le ragazze. E lui aveva ritenuto fuori luogo il commento che quell’uomo aveva fatto sulla sua ragazza. Anche Randy era un po’ alticcio e aveva voluto sfruttare l’occasione per movimentare un po’ la serata.
Pertanto, si era alzato e aveva spintonato il viscido sconosciuto, ma quello aveva reagito. E ora eccolo lì, riverso a terra in un lurido pub di provincia.
«La corte condanna Randy Burch alla pena di ottantotto anni di detenzione».
Le parole del giudice calarono come una scure sul ragazzo ventiduenne che assisteva come ipnotizzato al processo. L’aula fu attraversata da una scossa di commenti. Sua madre ebbe un malore. Randy non batté nemmeno ciglio, come se fosse presente esclusivamente con il corpo.
Il magistrato aveva deciso di fare in modo che quel ragazzo ricevesse una pena esemplare. Stando alla breve esistenza e ai precedenti di Burch, il suo futuro non era granché promettente. Meglio tenerlo chiuso dentro una cella per un bel po’ ed evitare problemi futuri alla comunità. Il giudice sapeva in cuor suo che quel Randy Burch non avrebbe mai più messo piede fuori dal carcere, se non per andare al cimitero, steso dentro una bara.
Quello che il giudice non sapeva, tuttavia, era che Randy non riusciva ancora a capire cosa avesse fatto di male. Dopotutto, aveva semplicemente seguito il consiglio che sua madre gli aveva dato quando aveva undici anni. Poi, dato che quel consiglio lo aveva portato a essere massacrato di botte, aveva deciso di imparare a difendersi. Ed ecco che un ubriacone si metteva a fare commenti indecenti sulla sua ragazza e tenta di toccarla in maniera inappropriata. Cos’altro avrebbe dovuto fare?
La fatidica decisione tra arretrare oppure tentare un montante destro alla tempia dell’avversario non era stata una scelta. Si era semplicemente trattato dell’ultimo passaggio di una catena di causa ed effetti innescatasi undici anni prima.
Poteva Randy Burch essere davvero ritenuto colpevole?
L’immagine di copertina è Combattimento delle Amazzoni, 1620, Pieter Paul Rubens. Foto presa da Pinterest