Macchina narrativa e relazioni specifiche
Di Marco Candida
Prima di cominciare, affrontiamo subito le questioni relative alla definizione. “Macchina narrativa” ha valore convenzionale. Potrebbe essere “Frigorifero narrativo”, “Tostapane narrativo” e anche “Barattolo narrativo”. In realtà, “macchina” nella mia personale immaginazione sta per “automobile”, ma intitolare questo articolo “Automobile narrativa” mi sembrerebbe ridicolo tanto quanto “Barattolo narrativo” o “Ventiquattrore narrativa”. La cosa fondamentale, nella definizione di “Macchina narrativa” (che nulla c’entra, tra l’altro, con “Macchina attoriale”) è che l’aggettivo in posizione predicativa (“narrativa”) è associato a un oggetto tangibile. Anche qui è utile forse riflettere sul fatto che l’articolo qui presente ponga a tema, come effetto di quanto appena illustrato, non un sostantivo ma un aggettivo. Dunque, sarebbe forse più corretta una definizione dove il concetto fondamentale posto a tema dell’articolo fosse un sostantivo e non un aggettivo (se aggiunge, forse se ne può fare a meno; ma in questo caso, così come nel caso di “macchina attoriale”, non è così). Nondimeno, poiché “narrazione automobilistica” o “narrativa frigorifero” non suona, e aprirebbe per giunta un altro ordine di problemi sulla definizione, assumiamo per convenzione come titolo del presente articolo “macchina narrativa”.
Che cos’è una narrazione? Una narrazione è un oggetto. Che cos’è un oggetto? Un oggetto è uno strumento. Cosa s’intende per strumento? Uno strumento è un mezzo per produrre qualcosa di diverso dallo strumento stesso o qualcosa comunque di separato dallo strumento medesimo. Se una narrazione è uno strumento qual è la cosa che questo strumento produce? La prima cosa che sicuramente produce una narrazione sono immagini. Queste immagini generano a loro volta altro: sensazioni, sentimenti, emozioni, interpretazioni… Ma la cosa più tangibile che una narrazione produce sono sicuramente immagini. Confuse o chiare. Limpide o sfocate. Enigmatiche o specchiate. Ma sempre immagini. In realtà, le narrazioni producono anche suoni. Ma questi suoni sono suoni diversi dai suoni di uno strumento musicale. I suoni di una narrazione producono simultaneamente immagini: la produzione di una narrazione, si potrebbe dire, riprendendo una definizione nota in linguistica, sono un insieme di immagini-acustiche. Talora nel considerare una narrazione si pone l’accento sull’aspetto fonetico talaltro su quello immaginale. Ma le due dimensioni non sono realmente scindibili, sebbene, in fin dei conti, il lettore debba fare i conti con l’aspetto immaginale più che con quello fonetico. Ma si può discutere anche su questo. In questo scritto si porrà l’accento sul lato immaginale.
Una narrazione produce immagini. Se le cose stanno così, ciò significa che tutto il resto non è un prodotto della narrazione. Se non è un prodotto della narrazione significa che tutto il resto (emozioni, sentimenti, percezioni di varia natura) è separato dalla narrazione stessa. Tutto ciò che non sia immagine (o suono) non viene dalla narrazione. Viene dal lettore, dal fruitore dell’opera. Tra le varie sub-produzioni della macchina narrativa si può senz’altro annoverare anche l’effetto di realtà o finzione, il quale, a questo punto, nulla c’entra, in senso stretto, con la macchina narrativa stessa. Una macchina narrativa di per sé non produce realtà o finzione più o meno come un’automobile non produce comfort per il guidatore: l’unica cosa che produce per davvero un’automobile è smog. Quella è l’unica cosa reale, tangibile, misurabile e con la quale potersi confrontare senza discussioni in tema d’automobili. Persino lo spostamento di un’automobile non è effetto dell’automobile stessa: ma delle ruote dell’automobile. Un’automobile con le ruote quadrate non si sposterebbe di un millimetro, ma non per questo smetterebbe di produrre l’unica cosa reale, tangibile e misurabile in grado di produrre un’automobile ossia non spostamento ma smog. Se una narrazione produce immagini-acustiche e null’altro, allora tutto il resto assume una consistenza oscillante. Diviene suscettibile di oscillazioni. Il senso di un’opera, ad esempio, è un’oscillazione. In certi momenti, il senso di un’opera ci è chiarissimo, ma in momenti successivi il senso della stessa opera ci sembra meno chiaro, la sua tessitura si sfilaccia, e a volte possiamo perdere del tutto il bandolo della matassa e non capirci più nulla. La stessa cosa vale per l’effetto di realtà o di finzione. Le oscillazioni di questo tipo di percezione esterna all’opera stessa (non direttamente prodotta dall’opera stessa) ci porterà a sentire un’opera molto più finta di quanto si pensasse in passato e in alcuni casi molto più reale di quanto in passato si giudicasse. L’ago oscilla tra due poli e da questi si avvicina e si allontana.
Allora, che cosa conta in una narrazione? Cosa si mette in moto in una narrazione quando si dà lo start? La risposta, come abbiamo detto, è: si dà luogo a immagini. Ma queste immagini sono solo immagini. Non sono immagini d’altro. Sono immagini interne alla narrazione stessa. Non possono esserci immagini d’altro, per l'”altro” è inserito a sua volta in una narrazione differente, e pertanto ha immagine forse simile, ma necessariamente diversa. La narrazione, ossia l’insieme delle immagini, e la loro orchestrazione, è la sola cosa a contare. E se una narrazione è ben fatta, fatta proprio bene, essa può prendere il sopravvento su personaggi, eventi, e piegarli inesorabilmente a sé stessa. L’immagine di un personaggio prodotta da una narrazione, ad esempio, è così potente a livello emozionale da portarci a credere che quell’immagine sia vera: e dopo un poco, non ci importa se sia vera o no: quell’immagine ci ha dato emozioni, e queste emozioni lo sono state reali. Ci porteremo per sempre la memoria di quelle impressioni dentro di noi.
Ci sono esempi in letteratura: ma la letteratura abita scantinati oscuri e pulverulenti, ed è difficile questi esempi colpiscano l’uditore, e lo persuadano della tesi che quegli esempi sostengono ossia: una narrazione può essere spaventosamente pericolosa. Esempi più concreti esistono però nel cinema e nel teatro. Chi presta la faccia a un certo personaggio all’interno di una certa narrazione, presto o tardi, si renderà conto che è difficile liberarsi di quel personaggio. Che non è facile presentarsi in giro, dopo aver interpretato l’equivalente senza maschera di Frankenstein facendo finta di nulla. Sostenendo: “Ma era finzione! Io sono tutt’altro! Ho tre cani, quattro figli, e una sola moglie!”. Questo per via del fatto che un attore ha comunque mostrato un’immagine di sé. Ecco, importante: un attore non indossa una maschera quando recita, ma più sensatamente un attore, quando recita, presta la faccia. Cioè, è il contrario di quanto solitamente andiamo predicando. Non ci sono maschere, ma quali maschere! L’attore stesso è maschera. Specialmente quando di maschere in senso proprio in un film o in una rappresentazione teatrale non ce ne sono affatto.
Prima di procedere nell’analisi della macchina narrativa e dei suoi effetti appoggiandoci a un esempio scelto dal cinema, una lieve deviazione dal percorso ci permetterà di capire quanto questa faccenda dell’importanza delle narrazioni sia assai presente anche nelle nostre vite di tutti i giorni – e non riguardi solo letteratura, teatro, cinema e mass-media. Non è infatti difficile rendersi conto che se una narrazione produce un’immagine, se veniamo a trovarci dentro a una narrazione (formulazione ironica giacché siamo sempre all’interno di una qualche narrazione), allora in quella narrazione anche noi abbiamo un’immagine (un posto, un ruolo non meno di attori e personaggi pubblici) e ci rendiamo altresì conto che per cambiare questa immagine dovremo prima uscire da quella narrazione per entrare in un’altra narrazione. Da questo punto di vista, i processi legali altro non sono, a ben vedere, se non il conflitto tra due diverse narrazioni: e due immagini che di noi si vogliono dare. E si può dire che gli avvocati siano letteralmente stilisti dell’immagine altrui. A volte anche in senso letterale.
In un film con Mickey Rourke e Linda Hamilton, Mickey Rourke interpreta la parte di un uomo disperato, con i capelli unti e sporchi, lunghi, vestiti logori e cenciosi e quando un avvocato decide di prendersi carico di lui in un processo per percosse alla moglie, la prima cosa che gli dice è di cambiare aspetto. I capelli vanno puliti, ad esempio. Mickey Rourke protesta. Non è colpa mia, dice. Ho un problema. I miei capelli sono grassi. Si ungono facilmente. Allora l’avvocato lo fa sottoporre a una certa cura al cortisone contro la pelle grassa. Risultato: Mickey Rourke si presenta in aula con l’aspetto lindo e pulito e un abito di taglio sartoriale. Un altro uomo. Ovviamente, una narrazione si può cambiare, cercando innanzitutto di cambiare l’immagine dei personaggi che la animano. Partire da sé stessi, insomma.
Fine della digressione.
Ma terminata la digressione ecco subito una prolusione prima di tornare alla questione lasciata per adesso in sospeso circa l’importanza della caratterizzazione dei personaggi all’interno di una narrazione.
Sono un fan di Steven Spielberg da quando ho vent’anni. Mi sono visto e rivisto i suoi film, e devo dire che trovo in Spielberg l’utilizzo di modi, immagini di un genere che apparentemente con Spielberg c’entra poco o nulla ovvero l’horror. Recentemente, sono venuto a sapere, guardando un documentario, che James Cameron doveva dirigere Jurassic Park, ma che Spielberg, per così dire, lo bruciò sul tempo. Nel documentario James Cameron (l’inventore del franchise Terminator e regista del film kolossal Titanic) si dichiara contento sia stato Spielberg a occuparsi del film: Spielberg è riuscito infatti nella magia di fare un film per tutta la famiglia. L’avesse fatto Cameron, sostiene Cameron stesso nel suo documentario, avrebbe reso Jurassic Park molto più cupo e horror. Lo stesso romanzo di Michael Crichton dal quale, com’è noto, è stato tratto il film presenta atmosfere cupe. Pertanto, sì, non è scorretto sostenere che ci siano nei film di Spielberg stereotipi appartenenti al genere dell’orrore al punto che potremmo quasi sbilanciarci a dire che Spielberg abbia creato un particolare genere deviato di horror ovvero l’horror per tutta la famiglia. Perché mai privarsi del piacere di vedersi un film dell’orrore o di fantascienza tutti insieme in famiglia prima di andare a nanna? Ed ecco Spielberg e Duel, Lo Squalo, Jurassic Park, La Guerra dei Mondi e Incontri ravvicinati del terzo tipo, i Gremlins, Poltergeist e tanti altri.
Ma come riesce Spielberg a essere così bravo? Come riesce a prendere una storia praticamente dell’orrore caramellarla e renderla commestibile come una stecca di mele glassate? Prima di provare a dire come ci riesce, facciamo una considerazione di carattere più ampio. Steven Spielberg prima che regista è spettatore. Lui fa il regista, ma con la sensibilità di uno spettatore: per questo riesce a dare agli spettatori prodotti molto apprezzati. Avrò letto un milione di storie dell’orrore e ogni volta ho vissuto la parte orrorifica come una penitenza da pagare, qualcosa di cui non si può fare a meno, altrimenti non si leggerebbe quella specifica storia. Insomma, a me come a migliaia di altri lettori, l’horror piace a dispetto di tutto ciò che connota il genere dell’orrore in quanto tale. Spielberg lo ha capito, ha questa sensibilità, e fabbrica storie horror privandole di tutti quegli elementi di genere che praticamente il 99% di lettori e spettatori, in realtà, non vuole. Il risultato è una storia d’avventura però più potente, d’impatto. Uno squalo bianco al posto di una balena bianca. Dinosauri al posto di un esercito di scimmie impazzite. Spielberg inserisce mostri spaventosi nei suoi film, ma tutto è accettabile perché:
1) le musiche di John Williams sono musiche da film d’avventura: sono marce trionfali, note piene, in tonalità maggiore, mai nemmeno minore, non parliamo di archi stridenti e musichette sinistre: persino Lo squalo ha una musichetta quasi accettabile in questo senso: para para paraparaparaparapara para. Potrebbe quasi essere la sigla dei telefilm del Tenente Colombo o dell’Ispettore Derrick. Se fosse la colonna sonora di Venerdì 13 o di Halloween non andrebbe, non funzionerebbe;
2) c’è molta solarità nel film di Spielberg, e quando non solarità in senso stretto (in Jurassic Park piove a dirotto per tre quarti del film) c’è colore: colori chiari, mai atmosfere tetre;
3) c’è anche molto entusiasmo: c’è sempre tanto senso di avventura quando i due protagonisti dello Squalo s’incontrano e poi s’imbarcano con un nostromo nonché timoniere pericolosamente pazzo o quando il paleontologo e la sua collega-amica speciale incontrano un miliardario che sicuramente verrebbe ricompreso subito in un cast di un film su Babbo Natale il quale li vuole, profumatamente remunerati, portare in un’isola piena di dinosauri: entusiasmo, una quantità enorme di entusiasmo, un quadretto idilliaco trascinante, a suo modo quasi commovente;
e 4) l’entusiasmo prosegue: la divorante curiosità di un paleontologo o la divorante passione per il proprio mestiere di un “pescecanologo” per non parlare di Indiana Jones e le sue missioni: al punto che difronte a gigantei dinosauri e squali gigamentali questi personaggi non fuggono a tutta birra tenendosi il cappello con la mano, ma si avvicinano, scrutano e descrivono ciò che vedono e sanno: incredibile! fantastico! magico!
Tutto questo contribuisce a formare il mondo di Steven Spielberg, ma non è certo questo, o solo questo, a rendere il cinema di Spielberg così implacabilmente affatturante. Il segreto del cinema di Spielberg è:
5) di non dimenticarsi mai a ogni fotogramma il rapporto causa-effetto che lega gli eventi della storia che si sta raccontando. La relazione causa-effetto è il fulcro del cinema di Steven Spielberg. Ogni fotogramma serve a una spiegazione. Nel primo film di Spielberg, quello girato da giovanissimo, c’è già questa elementare, ma fondamentale, intuizione. Si vuole far esplodere un obiettivo militare. Viene inquadrata (con un bel primo piano) prima la cloche con il pulsante del missile e poi (inquadrato da più lontano) l’obbiettivo che esplode. Causa-effetto. Nei film di Steven Spielberg si ha sempre l’impressione di avere chiaro il contesto dove l’azione si svolge. Un’inquadratura a un orologio. Un’inquadratura che comprenda l’insegna di un negozio. Nulla viene tralasciato in ordine allo scopo di rendere lo spettatore in grado di capire. Se capisce, uno spettatore s’immerge nella storia narrata. Preso nella rete di relazioni causa-effetto non è più in grado realmente di distrarsi.
L’esempio che preferisco è The Terminal. Un film che si svolge per intero in un aeroporto. Se fai un film sui dinosauri, è ovvio che i personaggi parlino di dinosauri. Se fai un film sugli squali, è ovvio (anche se non proprio scontatissimo, attenzione!) che i personaggi parlino di squali. Alla fine del film saprai cos’è un carcarodonte e che aspetto ha un T-Rex o un Veloci-Raptor. Ma se fai un film ambientato in un aeroporto, non ti aspetti, finito il film, di saperne di più sul funzionamento di un aeroporto, dei microcosmi ai suoi margini (da un certo punto di vista The Terminal sembra quasi la risposta edulcorata e fiabesca ai film di Ken Loach!) e di Napoleone e Giuseppina. Ti aspetti una storia d’amore, tante gag, divertimento. Cose presenti, nel film, ma in Spielberg sorrette, circondate dallo stesso spirito che gli ha permesso di realizzare capolavori quali Schindler’s List o Salvate il soldato Ryan.
Ora che siamo venuti a capo del segreto di Steven Spielberg (e tutti i filmmakers del mondo che leggeranno questo articolo da questo momento saranno in grado di realizzare solo capolavori, sebbene sia sempre strabiliante constatare quanto così come un individuo dotato di talento sia in grado di tirar fuori cose fantastiche da quattro indicazioni in croce, chi al contrario non dotato di talento riesca solo in schifezze impareggiabili nonostante gli sia stato spiegato a puntino tutto quanto ci sia da fare e da sapere) possiamo riconoscere altri meriti ai suoi film. Ad esempio,
6) l’effetto suspense nelle scene d’azione. Due gli esempi: la celeberrima prima scena di Indiana Jones e Il Tempio Maledetto e la scena della jeep sospesa su un burrone nel film Jurassic Park Mondo Perduto – il sequel di Jurassic Park. Mentre ero alle prese con la lettura della Divina Commedia di Dante (che mi ha portato alla stesura del romanzo La casa Benedetta) mi capitò di rivedere la prima lunga sequenza di Indiana Jones e pensai che fosse il timer l’elemento mancante nella narrazione dantesca. Nella Divina Commedia manca il timer: manca lo scadere del tempo che costringa i personaggi ad accelerare i tempi per fare quello che devono fare (come mettersi al sicuro da un dinosauro). Dante potrebbe parlare con Farinata degli Uberti o Manfredi di Sicilia per pagine e pagine o giorni e giorni senza che nessun Flegias, Barbariccia, Cerbero o Gerione intervenga ad insidiarlo. Ma non è solo la presenza del timer nelle scene dei film d’azione di Steven Spielberg a renderli perfetti.
Di solito, quasi sempre, per tutti i film, è questo: se c’è un problema, chi risolve il problema è a sua volta insidiato da qualche altra minaccia. In Jurassic Park Mondo Perduto abbiamo la scena del camioncino che precipita nel burrone. Il camioncino precipita ma rimane miracolosamente in sospeso, ma Sarah precipita a sua volta contro il vetro del portellone posteriore del camion: il peso del corpo genera delle crepe sul vetro. Il vetro per via della forza di gravità sta andando lentamente in frantumi e ogni nuova crepa sul vetro rappresenta benissimo lo scorrere inesorabile del tempo verso questo evento. Allora, Sara viene salvata, qualcuno le lancia una fune, e mentre il portellone va in pezzi Sara l’afferra e si mette in salvo. Ecco il timer. Ma ci sono anche i dinosauri che rappresentano l’insidia nei confronti di chi arriva in soccorso del camioncino. Lega un gancio metallico al paraurti del camioncino alla sua jeep e fa retromarcia per risollevare l’intero camion dal precipizio, ma deve vedersela prima con il terreno fangoso che fa sbandare di continuo la jeep a destra e a manca e infine con i dinosauri.
L’idea, insomma, è che ogni operazione all’interno della situazione tensiva sia disturbata (creando suspense: ce la farà o non ce la farà?) da una qualche insidia: nulla all’interno della situazione tensiva, nei film di Steven Spielberg, avviene in modo non-tensivo. In Jurassic Park Alan Grant si cala da una fune per sfuggire ai dinosauri. Ha sulla schiena uno dei ragazzi che lo accompagnano, e questi nel tenersi a lui lo sta involontariamente strangolando creandogli problemi. Un’azione di salvataggio o di recupero non avviene mai pacificamente, nei film di Spielberg, ma è sempre minata da una terza insidia. Ma è:
7) la caratterizzazione dei personaggi l’arma letale di Spielberg. Quello con cui proprio Spielberg mette knock-out lo spettatore. La caratterizzazione dei personaggi della storia. Oh, naturalmente le idee delle storie di Spielberg sono straordinarie. L’idea ad esempio di riprendere le gambe dei bagnanti in uno stabilimento balneare, sapendo che nelle sue acque circola uno squalo bianco, crea tensione allo stato puro. Ma la caratterizzazione dei personaggi nei film di Spielberg rimane magistrale.
Due esempi. Quint e Amon Goeth. Quint nello Squalo fa una fine indegna: viene letteralmente mangiato vivo da uno squalo lungo otto metri e con una bocca larga due. Eppure, lo spettatore non batte assolutamente ciglio. Questo per via della spietata, chirurgica, perfetta caratterizzazione del personaggio: un marinaio non propriamente simpaticissimo dall’inizio alla fine del film. Ma anche per Amon Goeth, il capitano delle SS nel film Schindler’s List, è lo stesso. Quel personaggio è talmente ben fatto, che l’attore eccezionalmente bravo si porta dietro l’alone del suo personaggio, a causa di tutto quel che abbiamo illustrato sopra, anche nelle interviste. In termini emozionali la narrazione prevale sull’aspetto finzionale; e se incontriamo Frankenstein a una fiera, ci spaventiamo e la prima cosa che irrazionalmente pensiamo è che ci voglia accoppare.
L’unica eccezione a questa regola (e ce ne sono senz’altro altre) potrebbe essere il cyborg di Terminator (il primo): se incontri Terminator a una fiera forse non è scappare la prima reazione. Questo per via dell’incredibile carisma di Arnold Schwarzenegger. Se sei in possesso di un incredibile carisma, riesci a cavartela anche se ti ritrovi nel ruolo del cattivo: ma deve essere un carisma proprio fenomenale. A supporto di questa tesi, c’è il caso del film “Falchi della notte” con Sylvester Stallone. Quel film non andò come ci si attendeva ai botteghini, e una delle cause venne imputata a un equilibrio drammatico non perfetto a causa della presenza di Rutger Hauer nelle vesti del cattivo. Hauer è troppo carismatico per quel ruolo, e allo spettatore vengono dubbi su chi sia il buono e il cattivo, e la storia ne risente. Ma per rimanere ai casi più frequenti, il prevalere dell’aspetto emozionale su quello finzionale spiega come mai certi attori (che hanno incarnato al cinema volti di eroi positivi) si guardino dall’accettare ruoli scomodi: perché il pubblico restituisce quel che riceve.
Questo è un punto fondamentale, e ci riporta a quanto finora lasciato in sospeso. Ovvero, ricordiamolo, la narrazione è una macchina narrativa che prende il sopravvento su tutto: e nemmeno un attore sfugge al meccanismo tritatutto di una narrazione. Nemmeno un attore. Se non ci riesce un attore, pensiamo quanto noi (che non siamo attori e che produciamo continuamente quelli che al cinema si definiscono “racconti basati su una storia vera”) non possiamo sfuggire ai tentacoli di una narrazione! Ed è strano si presentino questi problemi, se in fondo sappiamo 1) che le storie si assomigliano tutte quante e 2) che le brutte situazioni possono evitarsi con un po’ di accortezza e buon senso. Allora, come mai gli studi legali sono ancora oggi così pieni di clienti?
Perché non è vero (o non del tutto vero) l’assunto 1) né l’assunto 2). Sono le piccole differenze a fregarti, e a rendere la tua storia diversa, particolare, specifica rispetto a migliaia d’altre simili. Le piccole differenze. Piccole differenze che gli studi legali, e la legge, non sono in grado di riconoscere come rilevanti. Quello che conta, nelle storie di ciascuno, non sono tanto le situazioni, o le trame, o le relazioni tra le persone (che però sono l’unico elemento a contare in un tribunale davanti a un giudice), ma sono quelle che qui chiameremo le “relazioni specifiche”.
Tutti noi abbiamo esperienza di “relazioni specifiche”. Partiamo per una vacanza dove ci aspetta mare, sole, divertimento e ci ritroviamo a fare i conti con i difetti di una o più persone che ci accompagnano creando una specifica relazione con esse la quale relazione determina situazioni particolari. Ovvero noi partiamo per vivere una situazione e ci ritroviamo a causa di una “relazione specifica” a vivere all’interno di quella situazione di partenza altre situazioni che nulla c’entrano con la situazione di partenza in quanto appunto generata dalla “relazione specifica”. Le storie sono fatte dalle relazioni (relazioni tra personaggi o relazioni tra un personaggio e un luogo o un oggetto) tra personaggi e non dalle situazioni. Non solo, ma è la presenza di “relazioni specifiche” che rende una storia universale. Perché la “relazione specifica” scavalca la specificità stessa della situazione di partenza nella quale la “relazione specifica” ha luogo e potrebbe avere luogo in qualunque situazione, in qualunque storia.
Questo si vede bene nei film di guerra. Se consideriamo un film di guerra, sappiamo subito qual è la situazione di partenza che ci attende, il contesto e il genere di relazioni che ci si può aspettare. Bombe, sparatorie, esplosioni. Missioni. Obiettivi. Nel film “Salvate il soldato Ryan” di Steven Spielberg un gruppo di soldati nel corso della Seconda Guerra Mondiale parte per il recupero di un soldato da rispedire a casa. Tante scene di guerra accadono e ci vengono raccontate anche le impressioni di questi soldati sul soldato che il commando deve recuperare, come se lo immaginano, chi pensano Ryan sia, e ci sono tanti episodi dove lo scopo principale è definire concetti di decenza umana e mostrare quanto assurda sia la guerra. Tuttavia, questo film, anche se pieno di relazioni tra personaggi, e anzi le relazioni tra personaggi sono forse la cosa più importante, e cara, del film, manca di “relazione specifica”.
Invece, “Schindler’s List” è l’esempio quintessenziale della “relazione specifica” all’interno di una storia e di una situazione di partenza. Schindler’s List si presenta come un film sulla memoria dei campi di sterminio. Parla di un uomo d’affari che si avvantaggia di manodopera gratuita offerta dai deportasti nei campi di sterminio arricchendosi e al tempo stesso salvandoli. Già così la storia (una storia ambientata nei campi di sterminio) è sufficientemente originale. Ma spicca il volo, quando sulla scena compare il capitano delle SS Amon Goeth. Il film non è più un film sulla Shoah, ma su un individuo crudele e psicopatico, e su come Oskar Schindler e Itzhak Stern e ogni altro malcapitato all’interno del lager cerchino di averci a che fare. Un soggetto che troviamo in un campo di concentramento, ma che potremmo trovare durante una vacanza estiva in un viaggio organizzato o in una festa alla parrocchia sotto casa voluta da un istituto di beneficenza. La figura del pazzo, bullo e schizzato. La relazione specifica che Amon Goeth instaura con il campo di concentramento di Plaszòw, insomma, fa la differenza nel film Schindler’s List.
Altro film di guerra dove troviamo una “relazione specifica” è Full Metal Jacket di Stanley Kubrik. La recluta Palla di Lardo e l’istruttore delle reclute Sergente Hartmann. Siamo in un campo d’addestramento militare, ci sono i soldati, ma tutto questo diventa contorno rispetto a questa “relazione specifica”, che finisce quasi per mangiarsi pure il resto del film. Di sicuro, è ciò che di quel film ricordiamo meglio. Perché in fondo potrebbe avvenire, mutatis mutandis, anche in un campo vacanze magari retto da un personale con tendenze nazistoidi. Anche Platoon di Oliver Stone presenta al suo interno una relazione specifica. Si tratta di una situazione classica di film sul Vietnam, ma il film non è propriamente sul Vietnam, ma sulle invidie interne tra soldati, simboleggiate dalla relazione specifica tra il sergente Elias e lo spietato sergente maggior “Bob”. Questi arriverà addirittura ad aprire il fuoco su Elias per puro odio nei suoi confronti. La relazione specifica crea una situazione dentro alla situazione: ed è una situazione universale, sciolta dalla situazione più ampia di partenza. Una situazione universale perché chiunque in grado di riconoscerla. Noi nulla sappiamo di armi, fucili, guerra, foreste e così via, argomenti troppo esotici per il nostro quotidiano: ma sentimenti di invidia, codardia, volontà di supremazia li abbiamo probabilmente sperimentati tutti, o li abbiamo visti posti in essere da altri, ed è quello che ricordiamo, quello che di quella storia, in fin dei conti, ci colpisce e ci rimane impresso. La relazione specifica.
Ma tutte queste relazioni, situazioni, generali o specifiche altro non sono se non immagini. La macchina narrativa produce immagini, in modo più o meno ordinato, e le trasmette: e queste immagini diventano, entrando a contatto con il destinatario, chissà per quale alchimia, relazioni, senso, storie ed emozioni. Fino a quando l’alchimia non svanisce e allora tutto resta quasi privo di senso. A sopravvivere sono forse quelle che abbiamo qui chiamato le “relazioni specifiche”, perché sono sganciate dal contesto, e le troviamo in una specifica storia, ma potrebbero benissimo essere inserite all’interno di un’altra vicenda. La relazione specifica dà forma a sentimenti umani più che a situazioni oggettive. Sono ciò che siamo noi a dispetto delle circostanze. Come ci comportiamo. E gli umani per mezzo dei loro comportamenti riescono quasi sempre a dar vita a deviazioni imprevedibili dalle situazioni di partenza. Dopo un po’ la macchina narrativa s’inceppa e genera immagini sempre più confuse e incomprensibili, ma alcune immagini, per così dire, legano fra di loro, creando una relazione tutta particolare, quasi impossibile da spezzare. Ecco cosa rimane, davvero, di una narrazione.