Processo a una strega
Di Fabrizio Bella
“Tu hai vissuto poco, Serena. Eppure, conosci già molto. Sai della foglia sacra, simbolo della Madre, che può essere colta solo con la luna nuova, e che dicono conferisca il potere di interrogare gli spiriti. Pure, sai rendere tremula e insignificante la voce del più autorevole tra i patriarchi; questi ti s’avvicina, col cuore ebbro di vergognosa eccitazione, e senza ch’egli abbia bisogno d’interrogarti, tu sai già predirgli il destino suo e della sua casa dalle viscere degli uccelli. In tutto questo, Serena, tu non somigli a nessuna: non sembri una di noi.”
“Quello che dici è vero, Nanna. Ma io non so dare un nome a ciò che tu, invece, chiami con sicurezza delitti. Tu parli di uomini, e di spiriti, Nanna, come di cose che possono nuocere solo a nominarsi; ma io non ho memoria di qualcosa che non sia carne che sanguina e che gode. Forse, sta agli dèi severi attribuire il nome a ogni cosa, mentre a noi tocca l’azione e l’oblio.”
“Silenzio! Dimentichi che il luogo in cui ti trovi è sacro.”
“Esiste forse luogo che non lo è? Tu mi ardi, Nanna, perché sai dei miei scandali, e pensi che basti il fuoco a cancellarne gli echi. Domani, saranno le mie ceneri a nutrire la tua terra – frutti ne verranno, che stilleranno nettare profumato, dolcissimo -. Procedi, dunque: non temo la fiamma.”
“Non illuderti, strega. Non esiste vita, o gloria, nel posto in cui vai. E pure, sappi: farò in modo che le tue ceneri non vengano disperse, ma raccolte, e atomo dopo atomo, spezzate nuovamente tra i gorghi scarlatti del vulcano, che mai sono domi e sempre bruciano. Solo così puoi anelare alla purificazione, e al perdono.”
“Se è vero che i nostri dei sono uguali, o quantomeno simili, Nanna, puoi essere certa di una cosa: ebbene, loro non sanno cos’è il perdono, né pretendono che s’imponga loro di avere qualcosa da perdonare. Gli dèi che tu invochi non esistono, Nanna. Sono solo qui, entro il perimetro del tuo tempio.”
“La tua lingua avrà modo di pentirsi di ciò che la pazzia le comanda. Ma adesso taci, e ascolta, invece. I canti che senti giungere da fuori, ecco: a te sono rivolti. Questa musica è amara, ma perfetta.”
Un corteo di giovani donne velate sfila in processione. Tutte si fermano all’ingresso del tempio. La musica s’interrompe.
“A loro non è concesso l’ingresso. Chi entra nella casa della Madre lo fa per colpa, o per merito. Queste sale vivono del respiro degli dèi tutti, ma è la Madre a rimpolparne le carni.”
“Vedrai, altre come me verranno, Nanna; anzi, si riversano già per le strade, anche se tu non vuoi vederle. Il sangue giovane è caldo, e deve correre. È giusto così.”
A turno, le giovani donne sfilano innanzi al totem della Madre e lo baciano, in silenzio. Tra loro c’è chi posa ai suoi piedi fiori appena raccolti e casse di miele, in segno di omaggio; nessuna osa volgere lo sguardo all’interno del tempio. D’un tratto, canti d’amore e di morte si levano nell’aria, tremendi, più forti di prima.
“In nome della Madre, i cui occhi sono lampi che ovunque giungono e il cui fiato muove le navi dei giusti in mare e divelle le case degli empi dall’aspra terra; Io, Nanna, gran sacerdotessa di Ishtar, ti condanno a morte per mezzo della fiamma.”
Un fumo densissimo si spande dal tempio: nere ondate sporcano l’ambrato luciferino del crepuscolo. Ora le donne si lanciano sguardi inespressivi. I canti non possono cessare prima dell’alba – questo è il volere della Madre.
Calde lacrime rigano le guance delle giovani, giù fino ai seni.
L’immagine di copertina è Rogo di streghe in una stampa antica. Foto presa da albarnardon.it