Lo stemma dei Quattro Mori: riflessioni intorno al saggio di Barbara Fois
di Laura Vargiu
Che quella con lo stemma dei Quattro Mori sia la bandiera regionale della Sardegna, a livello nazionale sembra essere cosa abbastanza nota. Meno conosciuto invece – anche tra gli stessi sardi – il perché dei Quattro Mori assurti a emblema dell’isola.
Per quanto mi riguarda, da isolana, non ho mai amato questo simbolo, né l’ho mai ritenuto rappresentativo della mia terra; in verità, ho sempre visto qualcosa di morbosamente macabro in quelle quattro teste mozzate che riempiono gli spazi delimitati dalla croce di San Giorgio e che, sino a nemmeno troppi anni addietro, non mi era ben chiaro a chi appartenessero.
Lo stemma dei Quattro Mori di Barbara Fois, ricercatrice dell’Università di Cagliari all’epoca della pubblicazione, è un breve ma esaustivo saggio di grande utilità e interesse che consente di approfondire un argomento spesso affrontato in modo alquanto confuso. Con una trattazione chiara e lineare, la studiosa medievalista ripercorre le tappe che portarono all’adozione del simbolo in questione.
In estrema sintesi: lo stemma dei Quattro Mori nacque nella penisola iberica e furono gli aragonesi, una volta esteso il proprio dominio sull’isola a partire dal Trecento, a portarlo in terra sarda; la prima comparsa è stata rintracciata in una bolla di piombo della cancelleria reale di Pietro il Grande re d’Aragona, risalente al 1281. I quattro cosiddetti mori rappresentano simbolicamente la vittoria cristiana sui sovrani arabo-musulmani di quattro province catalane oppure, più crudamente e al di là dei simboli, proprio le teste mozzate di quattro regnanti arabi di Spagna, ritrovate, secondo la tradizione, sull’insanguinato campo della battaglia di Alcoraz nel 1096; la benda (o turbante) che cinge la fronte delle povere teste di moro era un segno regale.
L’associazione di tale simbolo alla Sardegna è attestata sulle monete e in opere a stampa nella seconda metà del XVI secolo, mentre già nella prima, sotto Carlo V, i Quattro Mori avevano adornato i vessilli dei corpi militari sardi costretti a combattere all’interno dell’esercito spagnolo. E quando, entro i primi due decenni del Settecento, gli spagnoli furono costretti a lasciare l’isola, i Quattro Mori vi restarono; per di più, nel successivo periodo sabaudo la benda cadde sugli occhi “non si sa se per imperizia dei litografi o malizia dei governanti”, scrive la Fois.
Si tratta, dunque, di qualcosa di estraneo e straniero al popolo sardo, qualcosa che non avrebbe mai dovuto rappresentarlo, un vero e proprio controsenso che, infatti, ha poi suscitato accesi dibattiti in Sardegna. In definitiva, lo stendardo dei dominatori adottato dal popolo dominato! Forse per rammentarci meglio il nostro poco glorioso passato (da un certo punto in avanti della storia) di colonia sempre sfruttata da altre genti sotto l’aspetto militare più forti di noi? Dai punici ai piemontesi, sul suolo sardo tutti hanno dettato legge: occorreva quindi che ci rappresentasse proprio il simbolo di uno dei tanti padroni di turno?
Viste tali premesse, occorre anche domandarsi perché chi di dovere non abbia optato, al momento della scelta ufficiale nell’immediato secondo dopoguerra, per un simbolo genuinamente rappresentativo di casa nostra, archiviando infine quel vecchio emblema di pessima importazione. Nel giugno del 1950, invece, il Consiglio regionale della Sardegna deliberò di adottare il gonfalone coi Quattro mori, scelta divenuta poi irrevocabile due anni più tardi con decreto del Presidente della Repubblica.
Più di sette decenni fa avremmo potuto cambiare rotta, ma ciò non avvenne, a dimostrazione della rassegnata inerzia, mi spiace dirlo, di un popolo che non è stato in grado di riprendersi la propria terra. È vero, come ha ricordato la stessa Fois in anni più recenti, che il simbolo dei Quattro Mori appartiene ai sardi da secoli, e pertanto un cambiamento ora forse rischierebbe di equivalere a una perdita d’identità, creando ulteriore confusione. Tuttavia, è altrettanto vero che i simboli nostrani tra cui scegliere non ci sarebbero mancati, a partire da quello del nuraghe che, condiviso da nord a sud dell’isola, testimonia l’importanza di una civiltà millenaria; non sarebbe stata da meno la figura di Eleonora d’Arborea, sovrana dell’ultimo dei quattro giudicati sardi a resistere e a combattere tra la metà del XIV e i primi decenni del XV secolo, non a caso, proprio contro quegli stessi aragonesi che ci avrebbero poi lasciato i Quattro Mori.
Mi domando, inoltre, come la Sardegna oggi, con quelle quattro teste musulmane mozzate, possa proporsi come partner credibile, in primis culturale ed economico, dinanzi ai Paesi arabi del Mediterraneo (non lontane dalle nostre coste, tanto per cominciare, si trovano l’Algeria e la Tunisia); dovremmo quindi confidare nel fatto che sull’altra sponda del Mare Nostrum non si informino sul significato esatto del vessillo? Meno male che, in questo caso, resta la possibilità di “nascondere” la bandiera regionale dietro il più diplomatico e meglio accreditato tricolore nazionale, sebbene la nostra italianità costituisca un capitolo a parte su cui si potrebbe discutere a lungo.
Pubblicato nel 1990 dalla casa editrice sassarese Carlo Delfino editore, il saggio della Fois, pur nella sua brevità, è una lettura illuminante che non mancherà di suscitare, come nella sottoscritta, le dovute riflessioni.
Saggistica
Carlo Delfino Editore
1990
48 p., brossura