Cronache dalla montagna. Le vette del surreale
Di Geraldine Meyer
C’è una frase che forse può aiutare a comprendere la postura di Alexandre Vialatte. Una frase che lui diceva di se stesso e che è riportata a inizio della bellissima postfazione di Pierre Jourde che conclude i due volumi Cronache dalla montagna, recentemente portati in libreria da Prehistorica Editore. La frase, in verità due sole parole, è: “notoriamente sconosciuto.” Due parole che, oltre a costituire un ossimoro, rendono un po’ l’idea di quella tendenza al surreale, all’ironico, all’apparente sconclusionatezza che caratterizzano queste cronache. Si tratta di composizioni che Vialatte scrisse per La Montagne, giornale dell’Alvernia e che ricoprono un arco di tempo che va dal 1952 al 1971. Surreale, ironico e sconclusionato sono sicuramente ciò in cui ci si imbatte leggendo queste cronache, genere di cui Vialatte fu tra i principali esponenti. Non ci si aspetti cronache realistiche stile reportage. Qui ci si scopre a leggere e a cimentarsi con qualcosa di diverso.
Partendo dall’assunto che “dall’uniformità nasca la noia” Vialatte si cimenta, con fiato certamente da montanaro anche della scrittura, in rutilanti cronache in cui apparentemente non vi è legame alcuno tra le cose raccontate e ciò che tali racconti vorrebbero dire. Ma è proprio in questa apparente incongruenza, in questa sospensione di senso che troviamo la grandezza di queste pagine. In cui ciò che appare come “incomprensibile” è proprio ciò che può suscitare meraviglia e stupore. In fondo che serve comprendere linearmente se si può arrivare a una illuminazione in modo traverso?
Rispetto a queste cronache, che uscivano settimanalmente, Jourde scrive: “Questo suo pezzo lasciava attoniti alcuni lettori del giornale sconcertati dalla stranezza di quell’umorismo completamente incongruo, accostato a un tono serio e professionale.” E attoniti si resta davvero. Ma solo per un attimo, perché nell’attimo successivo ci si accorge che dietro la risata (e lo sconcerto) suscitata arriva un’immagine nuova, una inedita sollecitazione a pensare alle cose. Leggete, per esempio, la cronaca in cui si racconta di una bambina di otto anni che si innamora di una lumaca e che di essa vuole diventare la sposa. Una roboante corsa di non senso dietro cui, in realtà, vi è una feroce e amara critica a una certa borghesia schernita attraverso le sue stesse idiosincrasie. O ancora quella in cui Vialatte discetta per diverse pagine sui piselli o sui farmacisti. Intento comico dietro cui, però, vi è non solo una enorme cultura ma anche l’aspirazione a una specie di universalità. È sempre Jourde, infatti, che scrive: “[…] si piazza nel frammento e, a metà tra l’ironico e il malinconico, si mette a giocare con questa idea di totalità elaborando l’enciclopedia incongrua di un utopico sapere universale.”
Sono queste Cronache dalla montagna una cartina geografica di un reale sospeso, in cui i frammenti di reale diventano solo possibilità fra tante altre possibilità. Quasi una mappa metafisica sulla quale, se si concentra un fascio di luce su un solo particolare, si finisce con il dubitare dell’esistenza di quel particolare stesso. Da lì lo stupore e la meraviglia perché, scrive Vialatte: “[…]alla fine si deve scegliere, di comprendere o meravigliarsi. E il primo bisogno dell’uomo è di non comprendere. La Creazione è mozzafiato.” Per questo motivo le cronache di Vialatte sono quasi la narrazione di essere e il suo contrario. In prima battuta si ride. Poi, se si legge ascoltando, arriva una valanga (siamo pur sempre su montagne di surreale) di amarezza.
Entrambi i volumi sono tradotti da René Corona, mentre la postfazione è tradotta da Gianmaria Finardi