LA FINE DEL VIAGGIO
Di Vladimir d’Amora
Vento, tiepido. Un’altra sigaretta, spenta, senza salvezza. Fino all’altro polmone cittadino, mormorati zingari, maldestri festanti. E nel tempo usarseli quei lassi del tempo, tutti i giorni, qualsiasi meta o incontro. Approntando passatempi spiccioli, a riempire le distanze, il giusto, il sottosuolo. Le fermate, una frenata, stridio, rotaie, soste in galleria, frequenti, quanto zeppe, per brusii. E terrore. E poi le stazioni, le più vivaci facce, portamenti esotici, puri, integrati. Stazione, a luccichio energetico, potabile colorato, vetrine con il guasto a penna, la insistita, distratta esposizione. La tratta, anche extraurbana, in quel giorno, a contare oggetti, fino agli ennesimi. E tempo. Gli occhi, quasi a cursori. O associazioni da ricordare per dimenticare, subito. Più del solito, meglio. All’ora, i binari, il cominciato fischio. Il segnale, l’udito tappato con le due dita. Mentre il vento, di per sé inadatto a togliere calorosità, la suprema cessazione. Col completamento del percorso lontano, la fine, delle fermate l’ultima. Guardare scendere, uno in uno sfilare, oltre la linea. Non spostarsi, il posto. Restare, dentro, al di qua di ogni arrivo, a tagliare l’universo, a misura, l’uomo.