Una lampada piena d’alcol
di Marco Candida
Come scrittore sono sempre alla ricerca di un modo spiazzante di vedere cose intorno a me; e sono di conseguenza attratto da persone dai modi non convenzionali di vivere la vita. Una di queste persone era Aristide. Aristide era sempre stato un tipo strano. Aveva all’incirca la mia età, e faceva lo scaffalista al supermercato cittadino. Questo è il primo dettaglio strano. Aristide aveva sempre fatto lo scaffalista. Aveva girato tutti i supermercati di città e dintorni e aveva sempre ricoperto quella mansione. Mai una promozione. Mai mansione diversa. Scaffalista. Aveva un’automobile strana, acquistata su Internet. Di base un’utilitaria, una Fiat 500, ma, mi raccontò, Aristide una volta aveva aperto la portiera dell’auto per smontare e un camion era passato e l’aveva tranciata via come l’ala di un insetto e lui aveva sostituita la portiera con una portiera acquistata su Internet di un’altra auto (una Yaris). Aveva fatto due modifiche e l’aveva sostituita, senza chiedere risarcimenti all’assicurazione, senza provarci, almeno. Risultato: Aristide girava su una Fiat 500 blu metallizzato con la portiera di una Yaris di colore giallo. Nell’autoradio metteva a tutto volume vecchie sigle di cartoni animati. Vestiva con prefettizie e magliette fuori dai pantaloni e ficcava nei taschini delle redingote fazzoletti arancione o verde acido. Non era un brutto ragazzo, almeno prima di gonfiare per via dell’alcolismo. Era magro, con due trampoli per gambe: un ragazzo, come si dice, dalle lunghe leve. Non altissimo, ma slanciato. Aveva donne. Le cambiava. Sembrava passarle in rassegna. Portava un paio di occhiali con la montatura vistosa, nera, quadrata. Gli stavano benissimo e gli donavano un aspetto stravagante. Un tipo pittoresco, nervosissimo. Quando ti parlava, saltava di qua e di là. Faceva ampi gesti con le braccia. Ti gironzolava intorno. Non stava fermo un attimo. E saltava di palo in frasca. Sembrava uno scienziato pazzo, se non fosse stato di azzeccare un congiuntivo ogni tre. Stare in sua compagnia faceva lo stesso effetto delle montagne russe o della giostra dei polipi. Dopo un poco dovevi stare all’occhio, a non perdere il controllo.
La sua dimensione Aristide la trovava a carnevale. Si era fatto un paio di scarpe con due zucche di Halloween e per giacca s’era messa quella rossa bordata di bianco di Babbo Natale e sulla faccia gli occhiali e il nasone. Ma usava le zucche anche in casa, come stivali. Ci cacciava dentro le scarpe da ginnastica e camminava nelle zucche sulla neve in terrazzo. Facemmo un pupazzo di neve, una volta, con la sua ragazza a sganasciarsi dal ridere e a dargli del matto. Fu un pupazzo memorabile, ovviamente. Da Primo Premio alla Fiera Dei Pupazzi di Neve a Babbonatalandia. Una carota bella grossa come naso. Rapanelli come bottoni della giacca. Due fragole rosse come pennarelli per occhi. E il cappello a cilindro. Le foto del pupazzo in rete spopolarono.
Andai a trovarlo a casa sua, proprio nel periodo natalizio. Da un anno e passa non lo vedevo più, Aristide. Dai social mi pareva si fosse messo a posto. Aveva trovata una ragazza – Laria, credo derivante da Ilaria. Una moldava, molto carina – in linea con le precedenti. E sembrava la volta buona. Laria lavorava nei negozi. Dalle foto sembravano affiatati. Sembravano sprezzanti. Sembravano fieri. Sembrava ci fossero solo loro, e gli altri dietro a un vetro, a guardarli e a farsi domande. Lo scaffalista bislacco e la commessa bella da infarto. Dopo una fotografia di Laria e Aristide sui social (una fotografia di contagiosa spensieratezza, allegria e voglia di vita) decisi di fare una sorpresa ad Aristide e andai appunto a trovarlo a casa. Non lo avvertii prima. Gli feci una sorpresa. Avevo negli occhi la sua maglietta arancione acquistata per due spicci dai cinesi e la maglietta di Laria blu elettrico, le loro facce con le bocche spalancate e sorridenti, gli occhi mezzo chiusi, mentre facevano il gesto di coprirsi da una pioggia di patatine e pop-corn arrovesciantesi su loro da un lato della fotografia. Quella pubblicata in rete. Mi presentai con due pacchi da mettere sotto l’albero. Ovviamente, gli alberi di Natale di Aristide, così come i Pupazzi di Neve, erano da Primato Mondiale alla Fiera degli Alberi di Natale di Babbonatalandia.
Non appena aperta la porta fui investito da un odore concentratissimo di liquore. Fu come entrare in una distilleria. Era un odore buono; sapeva di cuoio vecchio e lucido da scarpe, e di tabacco. Ma fuso insieme. Dava alla testa. Ti stordiva. Già solo quell’odore pungente, in un certo senso viscoso, ti rendeva brillo. Aristide indossava una maglietta gialla con la scollatura sbocconcellata. Potei scorgere le vene bluastre corrergli sul collo e sulle braccia. Era dimagrito ancora. Aveva gli occhi cerchiati di nero e i puntini bianchi per la barba incolta. Era uno straccio. Uno straccio coloratissimo, la versione aristidesca dell’essere ridotti uno straccio; ugualmente, Aristide non se la passava bene. Pensai a un’influenza. Lui mi disse di non aver avuto l’influenza. Gli dissi della fotografia in rete e di quanto mi fossi divertito a vederla. Aristide mi spiegò trattarsi di vecchia fotografia. Prese i regali e quasi sovrappensiero fece per scartarli. Mi misi a ridere, ma gli intimai di aspettare il 25. Lui alzò gli occhi dai regali e mi trafisse con uno sguardo pieno di tristezza e mise i regali sotto l’albero.
E io mi accorsi dell’albero. Come detto gli alberi di Natale di Aristide meritavano un Premio conferitogli direttamente da un Comitato Ultraspecialistico composto da Elfi e Fate del Natale; ma quest’anno l’Albero non era neppure così arzigogolato. Era un Albero d’aspetto assai elegante. Con balocchi di vetro luccicanti sotto le luci soffuse delle abat-jour in soggiorno. Aristide ci mise sotto i pacchi (accanto ad altri pacchi; uno dei quali colorato da un lampostil azzurro e un lampostil fucsia e si vedeva il bianco sotto) e poi si congedò un momento, accampò, per aggiustarsi meglio. Gli dissi non fosse necessario. Lui insistette. Mentre Aristide era a mettersi addosso qualcosa di più presentabile, mi alzai e osservai meglio i balocchi. Mettermi in piedi in quella bolla di miasmi liquorosi, devo dire, non fu facile. Per davvero ero stordito e preda di sonnolenza. E anche in un leggero stato di euforia. Mi avvicinai all’Albero di Natale con un mezzo sorriso sul volto e l’occhio un poco lucido. Osservai i balocchi appesi ai rami (rigorosamente di plasticone e setolosi; un anno Aristide trasformò in Albero di Natale uno spazzolone per lavare automobili ottenuto in dono da un autolavaggio) e rimasi di stucco. Dentro le eleganti boccette di vetro brillava per metà del liquore. Dal colore sembrava scotch. Ma altre boccette avevano altri colori. Pensai al ponche al mandarino e allo Jagermeister. Ecco perché nell’aria circolava tutto quell’odore d’alcol. Non ebbi tempo di controllare meglio perché Aristide tornò e io mi rimisi a sedere sul sofà come avessi ricevuto una scarica elettrica nel sedere.
Aristide si piazzò davanti a me. Aveva addosso un blazer blu scuro. In effetti, adesso, aveva un aspetto normale. Bastava un blazer per creare un Aristide tutto diverso. Per normalizzarlo. Renderlo comune. Il volto era rubicondo e più rotondetto di quanto ricordassi. Anche lui aveva come me un viso sognante. Stavo per chiedergli cosa fosse tutto quell’odore di alcol. E stavo per fare commenti sull’Albero di Natale. Lui però mi fece reinghiottire le parole quando gli vidi fare una cosa del tutto incredibile. Accanto al sofà dove stavo seduto c’era un tavolino e sul tavolino un abat-jour. Non c’erano lampade a stelo in salotto. Erano tutte quante abatjour antiche con il riflettore cilindrico di vetro. Ecco perché le chiamo abatjour. Aristide probabilmente le aveva acquistate nummo uno su Internet. O le aveva ricevute in eredità da una vecchia zia. Lo vidi chinarsi sull’abatjour e senza spegnerla prenderla in mano. Il filo era a sufficienza lungo da consentirgli di rimettersi in piedi davanti a me, solo un poco più vicino al tavolino, e da lì tornare a guardarmi. Dentro all’abat-jour c’era del liquido, quasi a filo rispetto al punto dove iniziava la lampadina dalla luce affiochita per il paralume. In effetti, quando glielo vidi fare, pensai fosse quasi un gesto naturale, perché il paralume cilindrico sembrava un bicchiere.
Aristide bevve dall’abat-jour.
Terminato di bere, spalancò la bocca e buttò fuori fiato, per via della reazione alla gradazione alcolica del liquore. “Aaaaahhhh….” sospirò.
Io lo guardai senza riuscire a spiccicare lemma.
“Laria mi ha lasciato” Aristide disse; e poi, tornò a tracannare alcol dall’abatjour accesa.
Confuso, provando un forte senso di irrealtà, mi guardai intorno. C’era liquido dentro ogni paralume antico presente in soggiorno. Aristide aveva riempito d’alcol anche la boccia del lampadario appesa al soffitto. Gli occhi mi si posarono su un vaso di vetro al centro del tavolo da pranzo pieno di gladioli, gerbere e margherite e notai il colore dorato del whisky nel vaso. Ecco, signore e signori, riflettei, un modo spiazzante d’intendere la realtà. Dopo l’addio di Laria, Aristide si era fabbricato un chiodo fisso; e quel chiodo fisso, quella fissazione, il demone dell’alcol, l’aveva portato a vedere ogni contenitore un contenitore buono a riempirsi col liquido della felicità e della consolazione. Il liquido dell’oblio. L’alcol. Tornai a guardare Aristide non potendoci credere. Aristide era lì, con la lampada in mano.
“Laria mi ha lasciato” ripeté.
Poi riprese a bere dall’abatjour.