La musica romantica: principi teoretici.
Di Adriana Sabato
Tra la fine del Cinquecento e il principio del Seicento, con l’avvento dello stile monodico e la parallela istituzione del basso continuo, il flusso dell’energia musicale si era polarizzato fra le due estremità dell’edificio sonoro, la melodia e il basso, con una rigorosa divisione delle sonorità: da una parte la melodia che descriveva gli “affetti” e dall’altra il sostegno e l’accompagnamento per il canto.
Ripartiamo da questa premessa che appare fondamentale nel tentare di delineare una distinzione – mai netta – fra l’evoluzione della musica strumentale e il lungo, lunghissimo percorso della musica vocale nella civiltà occidentale.
Con l’avvento del Romanticismo musicale, non solo nella gerarchia delle arti la musica venne promossa dall’ultimo gradino nel quale l’estetica razionalistica l’aveva confinata, al rango più elevato, ma anche la musica vocale cedette la sua secolare posizione di primato alla musica strumentale, considerata l’essenza più autentica della musica.
Tale rivoluzione, scrive Renato Di Benedetto, però, dapprima non investe propriamente la musica come tale, ma piuttosto la riflessione teoretica, e in particolare l’estetica musicale. Si potrebbe affermare che la musica romantica sia in primo luogo una “invenzione” di poeti, filosofi, letterati.
A confermare la netta sfasatura cronologica fra romanticismo filosofico e letterario e romanticismo musicale basta il confronto fra alcune date: nel 1796 (subito dopo le prime Sonate per pianoforte di Beethoven) si pubblica la prima opera letteraria compiutamente romantica, Sfoghi del cuore d’un monaco amante dell’arte, di Wackenroder; quelle che son considerate le prime compiute espressioni del romanticismo musicale, i primi Lieder goethiani di Schubert, sono invece del 1814.
L’armonia come fulcro del processo compositivo, era il terreno privilegiato della ricerca “progressiva” del musicista romantico.
La melodia accompagnata invece rappresentava proprio la concezione della quale i musicisti romantici sanzionavano la fine: una fine, però, già consumata per mano di quei musicisti (del classicismo viennese) che E.T.A. Hoffmann – colui il quale, per gli scrittori francesi dell’Ottocento (Charles Baudelaire, Honoré de Balzac, Charles Nodier) ha incarnato il vero spirito romantico tedesco – e compagni chiamavano romantici.
Questo perché gli scrittori e i teorici artefici di questa nuova concezione della musica intendevano quasi smontare il primato della melodia in quanto discendeva direttamente dalla concezione della musica come rappresentazione degli affetti.
La teoria degli affetti volendo perseguire la finalità di commuovere il cuore umano era essenzialmente un principio razionalistico, connesso, quindi, con la teoria dell’arte come imitazione della natura e come tale combattuto dai romantici i quali esaltavano invece l’originalità dell’artista creatore, e l’individualità irripetibile di ciascuna opera d’arte.
Insomma, come scrive ancora Di Benedetto, ci troviamo ancora una volta di fronte a un capovolgimento della concezione della musica: non è più sovrana assoluta la melodia, luogo deputato degli affetti e portatrice di significati determinabili, con l’armonia sua funzione, sostegno, supporto; bensì è l’armonia l’“in sé” della musica, e la melodia ne diviene, in un certo senso, la proiezione.
Ma il paradosso più sconcertante si annida nelle radici stesse della concezione musicale del romanticismo. Suo fondamentale articolo di fede era, come sappiamo, l’autonomia della musica; su di esso si fondavano il concetto di musica assoluta e la convinzione della supremazia della musica strumentale su quella vocale.
Eppure conclude lo studioso, l’Ottocento è anche l’età della musica a programma: in quella che dovrebbe essere la “pura” musica strumentale i riferimenti extra-musicali si fanno, man mano che ci s’inoltra nel secolo, sempre più frequenti, fino alla creazione di quel genere tipicamente romantico che fu il poema sinfonico. Quanto poi alla supremazia della musica strumentale sulla vocale, essa era stata proclamata da letterati ed esteti, ma sarebbe difficile constatarne l’attuazione nella pratica: la musica vocale domina in Francia e in Italia, ma anche nei Paesi tedeschi prevale largamente per buona parte dell’Ottocento (l’opera, l’oratorio, il Lied solistico e corale affollano la vita musicale della Germania in quest’età); inoltre i più “progressivi” e quindi in un certo senso i più romantici fra i musicisti (Liszt, Wagner) considerarono il ricongiungimento con la poesia come il coronamento della musica strumentale, il compimento del fine cui essa tendeva (questa fu infatti l’interpretazione “progressiva” data alla Nona Sinfonia di Beethoven). La chiave di questa contraddizione va ricercata nella radicale ambivalenza di quel “puramente poetico” ch’è per i romantici la sostanza spirituale, l’interiore nucleo di verità dell’arte musicale.
Riviveva, sia pure con toni e accenti del tutto particolari, nell’afflato mistico del romanticismo: la convinzione che il mondo fosse una vivente unità retta da un principio ordinatore fondato su proposizioni numeriche, e che pertanto nella musica s’esprimesse l’intima simpatia di tutte le creature dell’universo, e il fondamentale accordo tra macrocosmo e microcosmo: la pitagorica Harmonia mundi…
L’immagine di copertina è presa dal sito fondazionetoniolo.it