Mariadonata Villa – è cosa d’altro mondo
Di Rossella Pretto
Non conosci la pianura modenese ma potresti dire che ogni pianura irriga la sua infelicità. Non si ritrova nella curva che sturba il mondo ma si appiattisce in litania che stenta a sollevare il petto, lo spleen che abbatte la visione e la fa chiodo fisso nel cemento martellato con la parola che non si arrotola, in rotacismo veneto, la lingua che non suona e si impiglia paralizzandosi nel difetto che l’investe. Ma saper cantare gli uccelli è cosa d’altro mondo. Ricordi? Leggevi Il giardino segreto ed era tutto un incanto. La meraviglia che scardina il fiato. Ora sai che lì dentro era contenuta la guida che accompagna il tuo viaggio alla scoperta di Mariadonata Villa (Verso Fogland, Minerva Edizioni 2020).
Grata le ti inchini davanti riconoscendone la voce. Ed ecco allora che di tra la neve appare un pettirosso, il suo cuore di spini e la speranza che promette, il temperamento riottoso e indocile che accompagna le anime dei morti e la fragilità che annuncia il nuovo. Ed ecco anche il picchio verde «che trova il coraggio dell’asfalto / dentro al suo piccolo cuore alato». O gli aironi che «sanno ripari per il passo affaticato». I passeri «chiamati per nome / da forze preumane». Perché Villa tollera solo la lingua aerea degli uccelli che slabbra la notte, tutte le sue notti, liquide, stornate dal canto, una notte che «sbrana via il male», una «notte di tiglio e biancospino», ma anche una notte che «si mangia la pianura tutto intorno», la sua danza tragica, visto che «dobbiamo trafugare nomi nella notte / per poter vivere nel giorno, / contrabbandieri di immagini / da una perduta Aleppo», perché «comincia tutto nella notte», una notte elettrica, nella città, una notte di lucciole tra le campagne, che sono, le lucciole, «l’anello che non tiene // il rumore di fondo dell’universo», e allora ne segui i passi sonanti, le sue ‘Figure di significato’:
l’altra me che vive in sogno
si risveglia a volte nella notte
chiamata da voci di uccelli lontani
le accelera il cuore nel petto
perché ha una tesi pronta da discutere
ma non passa l’esame di geografia
e allora elemosina nel corridoio muto
del dipartimento pieno d’ombre
per biblioteche di cui non conosce lo spazio
ma solo l’odore pieno, di muschio
e carta tra le pieghe
quest’altra me che vive in sogno
vede feritoie dal soffitto, ha polpacci
sottili per passare lame d’ombra
è intessuta di luce e paure
come un’acqua profonda che lascia
riverbero alla notte di fiume che l’attende
correlato oggettivo di sé stessa, anafora
di un tempo abbandonato sulla sedia
che nella notte tiene il ritmo
del suo cuore di violino
leggere è ristabilire la musica
«la musica di ciò che accade», potresti dire con Seamus Heaney (ispirazione di Mariadonata Villa a cui dedica lo splendido ‘Fogland’ per cui non ci sono parole, leggetelo anche voi), e che equivale al canto dell’uccello, appunto, in cui il poeta riconosce l’epifania (la manifestazione del sacro, lei dice), la perfezione heaneiana dell’istante rappreso tra «i fiori di fango del dialetto / e gli immortali dalla nota perfetta» o ancora si trova nella contrazione tra l’orrore della guerra civile di cattolici e protestanti nell’Irlanda del Nord (nella sparatoria «assoluta e desolata») e il gesto empatico di chi supera l’ideologia e va diretto all’uomo che trema, tendendogli la mano. Anch’esso è musica di ciò che accade. Ed è la possibilità del miracolo, per Villa, «e così, sì, di fronte / ai nostri piccoli dèi terreni / di calcio e libri / chiediamo oggi la visione della terra, / smisurata come una vertigine / su cui poter camminare» (e quanti echi anche qui, e ovunque), il prodigio di un capovolgimento che interrompe l’ordine consueto delle cose e determina la necessità di un equilibrio perché, ritornando a Heaney, anche la poesia possa accadere ed essere «un vomere che affonda nel tempo / e lo rivolta», stando in bilico o in beetwen, nel mezzo, così che l’uomo, il poeta, «onniveggente / nel mezzo», ancora, riesca a camminare «sull’aria contro ogni buon senso». O come invece scrive Villa:
e quell’uomo in bilico sul margine
del mondo non si accorge
che l’axis mundi, la meridiana dell’oggi
è il suo corpo fragile sul bilico
è la polvere che sarà e il sangue che è
è tutta la luce che passa
fra lui e la pietra
fra lui e l’eco sordo
di un nuovo Big Bang
Come dire? La carne del poeta che nessuno scampa. «Un catalizzatore dell’enigma che sperimenteremmo tutti i giorni, se non fossimo così anestetizzati», scrive Villa nell’intervista iniziale. Il margine che si fa crepa da cui passa la luce. Perché «c’è una fraternità, nel sangue, che non finisce». Carne e poetica, che si nutrono di maestri e di luoghi. Per essere dette, non solo esperite. O luoghi mangiati dalla nebbia. Altra compagna inaggirabile nella Bassa, la sua fermezza metallica.
con la nebbia ti battezziamo
nel nome di questa bassa pianura
a questo confine in cui una barca si è arenata
nel giardino, a pancia in su
E nella Bassa c’è anche posto per un male che trasuda, immanente alle cose, «un terrore / di erica che ci entra negli occhi / il suono vuoto di campane nella neve», epperò niente di eclatante, «ristagna / agli angoli della bocca», è un nido vuoto, le periferie industriali dove si va a far l’amore di notte, o forse solo sesso ma con l’anima tutta in mostra, luoghi svuotati di senso, che al solo nominarli si sfaldano ma non se ne può fare a meno, e terra di conquista per battone nigeriane, «i loro corpi note a piè di pagina / sul foglio scuro della notte liquida». Là dove Mariadonata Villa sbozza Bologna e i suoi bordi incancreniti e sconci. Te lo ricordi Vitaliano Trevisan? Stai proprio leggendo Black Tulips. E lui non giudica, compie le sue indagini, compila il resoconto, come ti suggerisce G. accostandogli Bernhard. Ma anche questo male che sgretola i denti, in Villa, è niente, se l’epifania irrompe come un vento che spazza la visione:
e poi succede che nell’inverno
fioriscono tulipani contro al sole
rompono argini, escono acque
il centro del mondo diventa la terra
che si specchia sotto le tane delle volpi
e allora vi è spazio e aria per le invocazioni (venite, voi spiriti che vegliate sui pensieri di morte… tanto pensi a quella di Lady Macbeth, demoniaca e potente, ma di segno opposto)
venite, cieli di mezzanotte
piovete dall’alto a capofitto
[…]
vestite di gioia il cuore dell’uomo
nei cui occhi tintinna la luce
di tutto il tempo passato
per arrivare a questo punto
nel qui-e-ora del mondo
o ancora:
venite, acque che vi fate respiro
infilatevi dall’aria nel mio corpo carsico
bevete tutto il male, fatene inno
fate del tempio di carne un cembalo
cavate il suono perfetto dalla pietra delle ossa
che digrada, fate memoria
di quando tutto fu formato, schiaffo e gloria
di contro al tempo che non sapeva ancora
dirsi, che non faceva ancora misura
Misura, sì, e qui la musa gutturale heaneiana, che tanto gracchia nel testo di Villa, si addolcisce e compie il suo miracolo facendosi larga preghiera, inno contenuto tra braccia che ci incatenano nella comune misura umana.
Ritorni in ultimo all’epoca in cui ti era possibile credere a un destino fatto di cose minuscole. Leggevi Il giardino segreto e forse a quel tempo facevi esperimenti a scuola. Ti insegnavano come nasce la pianta, come la scorza delle cose ceda sotto morbide palate di vento che colgono il cuore alla sprovvista e lo spalancano. Vedranno ancora, i bambini d’oggi, spaccarsi il seme e la radice intrudersi nel cotone mentre lo slancio verde della vita scala il plastico cielo di un bicchiere?
Poesia
Minerva
2020
112 p., brossura