Quando la letteratura scoperchia sepolcri
Di Geraldine Meyer
Parlare di luoghi vuol dire parlare di persone. E questo può essere deflagrante. Chissà se lo sapeva Pierre Jourde quando scrisse il bellissimo Paese perduto (di cui trovate la recensione cliccando QUI). Di sicuro lo ha scoperto poco dopo quando, proprio quel libro, scatenò una reazione violenta da parte dei pochi abitanti ancora abbarbicati al villaggio dell’Alvernia di cui si parlava. La colpa di Jourde? Avere raccontato e reso pubblico qualcosa che, seppure conosciuto, doveva restare taciuto. Sicuramente non narrato a un pubblico, vasto e estraneo alla vita del paese. Jourde e la sua famiglia, tornato al villaggio, ignaro di tutto, fu aggredito, insultato e, sì, preso a sassate.
Questo La prima pietra, molto ben tradotto da Silvia Turata e pubblicato sempre da Prehistorica Editore, è il racconto proprio di quelle reazioni. Una Alvernia profonda, arcaica, lontana e isolata. Una Alvernia e un villaggio a cui, in realtà, Jourde con Paese perduto voleva rendere omaggio, partendo dal funerale di una ragazzina, addentrandosi nel racconto di una feroce solitudine, di una vita dura e difficile in cui, spesso, l’alcol dava apparente forza e oblio. Era una sorta di dialogo postumo con un padre che non era chi si pensava fosse, figlio di una relazione adulterina. Una finzione in un certo senso, attorno a cui si calcificavano altre finzioni. Non vi era malizia, insulto in quelle pagine. Solo un omaggio, senza idillio e arcadia, a un luogo in cui la violenza era insita nella vita e nelle condizioni della vita stessa. Una violenza arcaica e, per questo, non priva di sublime.
Ma qualcosa non è piaciuto agli abitanti del villaggio. Una esplosione di rancore, di non detto che diventa gesto e parola violenta, ostracismo, odio e rottura di legami di una vita. La prima pietra è un libro che racconta, tra le tante altre cose, il potere della letteratura, con la sua scompigliante forza nel portare in luce tanti io, tu, persone che diventano personaggi. Mostrando un segreto che smette di essere tale, togliendo così, agli abitanti del villaggio, la possibilità di “mostrare di avere un segreto”. Questo, lucidamente, Jourde chiama “il paradosso del segreto”. Un paradosso portato in superficie proprio dalla letteratura e dall’autore che, ci si chiede, quali diritti abbia. Domanda pleonastica, inutile. Buona per chi trasforma il malinteso in pretesto per trovare la propria identità nella difesa di ciò che si pensa sia una identità spogliata dalle parole di un libro. Si può dire che la reazione degli abitanti del villaggio sia proprio agli antipodi del malinteso, che è apertura, trovandosi in realtà nella totale assenza di esso. Da qui la violenza di chi crede di avere capito e di poter giudicare le intenzioni.
Con La prima pietra Jourde si interroga su cosa sia la parola, la restituzione attraverso essa, la morte, i legami familiari, la cultura di un luogo sperso, isolato, forse destinato a sparire. Si interroga e ci interroga sulla responsabilità del racconto, sul debito di riconoscenza verso un luogo di cui si vuole cantare la sublime bellezza proprio senza nascondersi dietro una edulcorata armonia che non esiste. Che non può esistere. Ma cosa resta di tutto ciò? Cosa e come perdonare dopo la violenza, dopo un interdetto che trasforma l’autore in un estraneo, in uno straniero? Cosa resta delle origini e di una storia personale che continua, nonostante tutto, ad essere storia del paese? Un libro che fa molto pensare e che, ancora una volta, ci parla di un grande autore.
Letteratura
Prehistorica Editore
2023
198 p., brossura