Una donna di polenta
di Marco Candida
Ascoltavo e riascoltavo una canzone di Mogol e attaccava dicendo “Dopo di te che cosa c’è?” e subito pensavo quanto quantificare quel “dopo”. Quanto dura quel “dopo”? Perché mi sembrava non passasse. Tante storie, tante serate, tante donne e alla fine quasi avrei potuto farci il libro. Dal titolo: “Viaggio in tutto il lardo che siete Voi”. Così difficile quando diventi Dilf trovare una Milf come quelle dei films. Difficile trovare una donna. Facile con una ragazza-borsetta. Le compri una borsetta e le sfili le mutandine. Però, non c’è anima. Difficile trovare una donna. Solo femminilità. Così, avventure, ubriacature, serate alle quattro ma tu stupidamente stai lì a pensare ti basterebbe un capello di lei e fissare il soffitto baloccandoti con quel capello (come la storiella del dannato all’Inferno supplicante ai Piani Alti di almeno una goccia d’acqua, una sola, una) e varrebbe più di quelle serate con gente di cui non t’importa e a cui tu, per fortuna, non importi parimenti e in fondo è così consolante l’indifferenza, l’amicizia vera è nell’indifferenza, la reciproca indifferenza di fondo è il moto dell’agire umano, le passioni creano solo scintille ed è impossibile fare alcunché, non esistono dispositivi di protezione individuale per quel genere di scintille, appunto è noia, come canterebbe Califano, già che siam partiti da Mogol, ma è una noia piena di passione, una noia piena d’amore, contrapposta a una noia dentro, noia piena d’attivismo, con perenne desiderio di lei: e arriviamo al “di lei”, guarda caso; “dopo di lei che cosa c’è?”, scrive Mogol, ma “lei” era “lei”?, lei nemmeno ti calcola, perché c’era indifferenza, questo il motore del vostro rapporto, le eri indifferente e amava questo di te, non doverti neppure invitare al giorno del suo stesso funerale, su siamo seri, ma figuriamoci, mai rappresentato nulla, e a te invece basterebbe un capello di lei e così ti accorgi lei non è lei, lei non è niente, e alla fine è solo film mentale, solito film mentale. Insomma, ascoltavo e riascoltavo questa canzone mentre frequentavo nuova gente e mi facevo queste domande e altre, sempre più stupidamente il tempo trascorrendo via via, giorni, settimane, due mesi, tre, quattro e io ancora lì a lei, e adesso avrei saputo cosa fare, già che siam partiti da Mogol, e sapessi andarci io, anche se in fondo qualcosa di simile già facevo, nel senso dell’indifferenza, e insomma ascoltavo e riascoltavo la canzone di Mogol cantata da Gianni Bella quando ho incontrato Ela.
Alla base del mio rapporto con Ela non c’era sesso, ma cibo. Al posto del sesso cibo. Ero io a sottrarmi. Avevo paura Ela infilasse la testa nel forno e buonanotte. Anche lei veniva da un film mentale e ci raccontavamo, con pudore, i nostri film mentali e a parte un pompino con una mezza erezione Dilf abbiamo messo da parte il sesso per il cibo. Ela mi invitava a casa sua e mi faceva da mangiare. Una pastasciutta con sugo buono. Gli hamburger vegetariani. Insomma, mi faceva da mangiare. E io scherzando le dicevo: “Un uomo bisogna prenderlo alla gola” e scherzavo ma intanto magnavo. Magnavo di gusto. Lei mi nutriva. Ero felice con lei. Come quel bambino in tutti gli ometti. E così non c’era sesso, ma c’era cibo. Pensiamoci. Il sesso è il cemento del rapporto. Quello che lo tiene insieme. Il sesso. Ma non è vero. Possono anche esserci fiumi di denaro a senso unico. Questo anche fa da collante. Ma se c’è sesso e denaro, non può esserci cibo. Non mangi, per essere attraente. E poi fai ginnastica, e ti tieni forte, così aumenti la bellezza della prestazione sessuale. Dove c’è sesso non c’è cibo. Per me non c’era stato. E adesso, con Ela, c’era cibo. Mangiare. Magnare. Così, magnavo. E lei mi nutriva. Mi faceva passare per la bocca ogni pietanza. Poi, mi accarezzava la panzetta. Ah sì. Ecco cosa volevo dire. Ogni donna ha il modo suo di essere strega. Ti ammaglia con la dolce sorca oppure appunto col cibo o chissà con quali altre strategie. E tu ci caschi. Sempre. Fai lo gnorri. Fai il duro. Te ne fotti. Fai le scenate madre a una strafiga. Io non ho bisogno di te! Non c’è niente che mi puoi insegnare! Niente! E quando si chiudono i rubinetti ecco le disperazioni. Lo sconforto ti prende alla gola – come scrive Mogol, perché poesia a volte è anche sinonimo di eufemismo. Ti cerchi frenetico le monetine nelle tasche, ma non le hai. Non le hai mai avute. Hai fatto game over e la partita era offerta dalla casa.
Andò così anche con Ela. I suoi sacchetti pieni di panini portati ai giardinetti quasi su comando hanno sortito l’effetto di farmi tornare da Ela sempre meno sporadicamente. Di ammorbidirmi. Di considerarla meglio, E piano piano. Piano piano. Cominciammo a parlare di nuovo di sesso. Te lo scordi. Non ti voglio vedere con la testa nel forno. Per un altro stronzo del quartiere, già che siam partiti da Mogol. Chiuso. Non faremo sesso. Ma ti faccio così schifo? No. No. Ma per una goccia di passione poi t’impicchi. No. Chiuso. Io non sono un povero pezzo di merda, già che siam partiti da Mogol. Appena sento il film mentale partirti dentro la testa schiaccio lo stop. Ci sto attento. Io ho rispetto. Rispetto. Tutte balle.
Così, insomma, un giorno Ela m’invita a casa sua. Dice per il solito pranzetto. Una parmigiana, dice. E un arrostino con patate. E una sorpresa. E io vado. Da giorni e giorni non ci si vedeva più, Ela e io. Ma la cosa mi era indifferente. Non indifferentissima. Ma potevo sopportarla. Magari mi veniva di chiamarla, ma cinque minuti e passava. Non come con lei. Dove dovevo mettermi a testa in giù coi piedi sul soffitto prima di comporre il numero. Per scoprire tanto quella (no: ecco il ritorno della spocchia; lei, lei, lei!) nemmeno rispondeva. Lasciava squillare. E io in ogni squillo vedevo un mondo di significato. Ogni squillo valeva più di mille discorsi. Sì. Sì. Era così. Così. Era il nostro gioco. Il nostro sottinteso. Mio e suo. Di lei. Sì. Invece con Ela mi passava. Con Ela mi passava. Non ho avuto problemi a ripresentarmi a casa sua. Ero anche curioso della sorpresa. Io come tutti i veri uomini sono della scuola se ti danno un dito portati via il braccio. Così vado e cosa scopro? Che il regalo c’è davvero. Ti ricordi quando ti ho detto, mi dice, della bambola gonfiabile uguale a me? Che te ne avrei regalata una per vederti fare l’amore con me? Sì. Ricordo. Come posso non ricordare una roba simile? Ci ho messo un poco, ma ho fatto una me di polenta. Dentro ci sono anche patate e funghi e carne trita. Sono io. Mi somiglia? Guardai. Aveva cucinato una se stessa fatta di polenta. Con due olive per occhi e un naso e una bocca. Una specie di cestino di patate per capelli. Non riuscivo a crederci. Lunga un metro e settanta come Ela. Enorme, cazzo! Stesa su un compensato bianco rialzato dal pavimento. Era quasi identica. Era lei. Devo mangiarti? No. Spogliati e fai l’amore con me. Con la me commestibile, intendo. Se fossi cibo buono, mi mangeresti. Mangi il mio cibo, ma è come se mangiassi me. Sì. Sono d’accordo. E’ il mio modo di amarti. Il nostro modo di amarci. Mi spogliai. Mi stesi sulla Ela di polenta. Mangiai. Non scottava. Era caldina. Caldina. Sì. Ela era estatica. Sì. Mangiami. Mangiami. Mangiami. Sono tua. Tua. Sono dentro te!