Due racconti di Charles Krevigoskji
PROMESSE
Quando mi ritirai abbracciato al mio sacchetto di carta contenente la mia cena di un panino e due bottiglie di vino, trovai una gran confusione di gente sotto al mio palazzo. Vivere nei quartieri popolari, ti abitua a vederti sempre gente tra i piedi anche se non vorresti, ma quella volta era davvero tanta. “Buonasera, questo è il nuovo candidato sindaco” fece il prete che lo stava accompagnando per il quartiere, rivolgendosi a me anche se credo non mi avesse mai visto. Lo guardai carico di tutta la rabbia di aver passato un’intera giornata maciullata nel tritacarne del lavoro e gli sparai direttamente negli occhi la mia risposta: “Deve saperlo signor padre, che il diavolo è mancino!” Passai fra quella moltitudine di gente e me ne salii al mio appartamento di camera e cucina ricavato da uno più grande subaffittato da una coppia di vecchi che non sapevano come tirare avanti. Quello era un periodo ricco per me, e per me il periodo ricco è quando lavoro almeno dieci giorni a settimana, anche se si prendevano l’anima prima di pagarmi. E quando ero ricco potevo permettermi di dormire in un letto, anche se spesso portava ancora i residui di chi ci aveva dormito prima di me. Avevo un gran programma per quella serata e cioè, godermi la mia solitudine e certamente non me lo sarei fatto rovinare da quelle insopportabili presenze. Abitavo da poco in questa casa, e non conoscevo ancora nessuno fortunatamente. Ma quando chiudo la porta dietro alle mie spalle, qualcuno già bussa quella specie di campanello gracchiante, ridotto all’osso ogni volta che l’avevano disturbato in tutti questi anni. Continuai ad andare avanti per il corridoio verso la mia stanza, mentre insistevano a suonare. In casa non c’era nessuno e quelli ancora continuavano a rompere suonando. Appoggiai il mio sacchetto sul letto e ritornai indietro per aprire. Era una ragazza, non la feci nemmeno parlare che dissi che i vecchi non c’erano e non c’era nessun altro oltre me. “No, no, non cerco loro, ho visto entrare lei. Tutto il condominio è giù a sentire a quelli”. “Prego allora, accomodati accomodati” dissi alla ragazza. “Però dovresti passare nella mia camera, se è me che cerchi, i miei ospiti non possono sostare nel resto della casa”. Mi seguì e subito si sedette sul mio letto accanto al sacchetto. “E’ la mia cena” dissi, “panino e vino”. “Ottimo” mi fece guardando il sacchetto. Divisi il panino e mangiò con gusto. Stappai la prima bottiglia di iniziò a bere altrettanto di gusto. Era una studentessa mi disse, nonostante la madre la mandava ogni tanto giù quando riceveva i suoi clienti, ed il padre non si sapeva chi era ed i fratelli erano tutti in galera. “E tu?” Domandai subito come se avessi avuto paura per lei. “Tranquillo, vado a lavoro da una vecchia a cui nessun figlio vuol pulire il culo. Mammina di qua’, mammina di là, e poi nessuno a pulirgli il culo. Sai, la pagano bene la merda” mi disse scoppiando a ridere. Sveglia la ragazzina pensai. “Anche tu so’ che lavori per sopravvivere, ma che in realtà vorresti fare altro!” “Altro?” domandai. “Si, ho letto qualcosa di tuo in giro. Non ti vorrei demoralizzare, ma scrivere è come il recitare per la televisione. Devi avere qualcuno che ti tromba per diventare famoso, e tu non sei nemmeno femmina!” “Grazie ragazza, sei di un gran conforto!” e rideva, come una ragazzina molto più sveglia di un’adulta, e come un’adulta un po’ ragazzina. “Sai, a me qualche proposta l’hanno fatta all’università ma non ho scopato nemmeno con i più giovani e belli. Io non sono in vendita bello!” “Non ci crederai, ma pure a me volevano trombare, ma non in quel senso là, ma facendomi scrivere come volevano loro. Quindi mi avrebbero comunque trombato dietro pagamento”. “Ah, oh oh oh” scoppiò in una grande risata seria. “Peroooo …’” stava concludendo lei. “Chissà come sarebbe scopare uno scrittore fuori del comune!” “Quale comune, questo che avrà il prossimo sindaco?” “Ah, oh oh oh …” continuava lei a ridere. Mi si appiccicò alla bocca e lo facemmo entrambi gratis, semplicemente perché nessuno dei due aveva un prezzo.
Giù il megafono prometteva senza promettere niente …
IL RACCONTO DI DIO
(Dio si fa un giro nel quartiere)
Erano giorni che si diceva che nel quartiere girasse una macchina sospetta. Un attentatore forse, ma chi veniva ad attentare la vita di disperati come noi? Le bombe se ci vedevano, sarebbero implose da sole per pietà. Allora l’ipotesi più accreditata, era che potesse essere un maniaco. Io ascoltavo questi discorsi dal finestrino del mio cesso perché le pettegole parlavano dai loro balconi. Dal mio seminterrato dagli infissi divelti, non potevo fare altro che ascoltarle contro la mia volontà. Fosse stato per me il maniaco poteva pure portarsele tutte, ma guardandole non ne avrebbe avuto mai il coraggio. Tutte così trasandate per la fatica di inventarsi da vivere, qualcuna ancora giovane e già con molti denti mancanti per aver allattato tanti figli. Allora andavo al cesso e le sentivo parlare, e poi uscivo per strada e guardavo i capannelli di gente che parlavano, ma l’auto sospetta ancora non l’avevo vista. Quindi un giorno che uscii per andare dal tabaccaio e provare se mi facesse credito, vedo spuntare dal fondo del vicolo una macchina bianca che mi si avvicinava leggera, senza che si sentisse il rumore del motore, quasi scivolasse sull’asfalto, senza attrito … come fosse godibile una vita senza attriti, pensai. La carrozzeria era di un candore mai visto e non era stata la freccia del lavaggio e nemmeno la cera, la macchina era simile a una nuvola che mi si parò di fianco. “Scusi lei” mi si rivolse un tipo barbuto con i capelli lunghi, e bianchi come la macchina, ben pasciuto con due belle gote riempite di sostanza, forse di bei pasti sostanziosi. “È questo il quartiere del Salice?” “Così dicono” gli risposi. Aveva un sorriso di carta leggera stampato sulla faccia. Era una vera beatitudine guardarlo. “Scusi, è lei il maniaco?” Avrei voluto chiedergli, ma così diventavo un pettegolo anch’io. Quando gli diedi la risposta, si guardò intorno stupefatto, il sorriso della beatitudine e della speranza iniziò a spegnersi sul volto come una lampadina che ha finito la sua vita. Ai lati delle strade c’erano carcasse di macchine incendiate, altre ridotte a rettangoli ammaccati, infissi gettati come normale pattumiera, e poi piastrelle, mattoni rotti, risulta di edilizia, cani scheletrici che ci pisciavano sopra, insieme ai bambini nei loro vestiti neri sopravvissuti alla guerra quotidiana, scheletri di motorini rubati e ogni altro genere di rifiuto umano e materiale. Il barbuto biondo si girò verso me con gli occhi sgranati, mi diede una scorsa e anche se con qualche sdrucitura da qualche parte ero alquanto pulito rispetto agli altri. “E lei dove va? Cosa fa?” mi chiese. “Scusi, ma è nuovo della polizia?” domandai. “Perché qua la madama non è di casa, quando può, è felice di evitarci, e ognuno fa quel che gli pare”. “Io sono il capo di tutto” mi rispose. “Si spieghi meglio, capo della polizia o è un boss?” “Io sono capo della polizia e di tutti i boss”. “Ah capisco, è il presidente!” risposi dando un’altra occhiata al suo abbigliamento, alla macchina, una fuoriserie non c’era dubbio, e all’autista immacolato che usava lo stesso suo candeggio. “Io sono il capo di tutti i presidenti” mi ribatte ancora lui. Allora iniziai a fissarlo pronto a prevenire una sua improvvisa mossa dato che sicuramente era un matto pensai, o proprio il maniaco che tutti dicevano. A volte le pettegole ci azzeccano. “Ok, ok amico, ti saluto”. “Perché vai di fretta figliolo, la vita si assapora piano piano” mi disse con un sorriso ammiccato. Ok pensai, questo è un frocio del cazzo, maniaco degli uomini e qui ha terreno fertile tra la povertà di noi derelitti. Gli guardai una mano che aveva con tutto il braccio appoggiato alla portiera della macchina, bianca peggio di una nuvola, era una mano che non aveva mai raccolto pomodori o preso in mano una chiave inglese, era una mano da ricco, si vedeva. Coi suoi soldi avrebbe potuto permettersi tutto. Avevo capito … era un politico, veniva pagato per fregare la gente e più lo sapeva fare, più lo pagavano. “Cosa fai?” mi domandò. Magari gli serve un segretario. Ma all’inferno, non potevo trovarmi un lavoro io, almeno non un lavoro comune come quello. “Sono una specie di scrittore umoristico, ma sono fallito già in partenza, la gente non è ironica!”. “Oh oh!” lo feci ridere. Aveva una risata familiare, tipo quella di Babbo Natale. “Sì, Babbo Natale l’ho creato io” mi disse all’improvviso, come a leggermi nel pensiero. “E non pensare più di mandarmi all’inferno, che con me non è proprio il caso”. Ma come cazzo aveva fatto? “Ehi amico sei un mentalista?” Ma sì, lo dovevo pensare prima. Anche David Copperfield si veste in maniera ridicola come te” scoppiai a ridere. “David Copperfield è solo un mio imitatore” mi rispose sicuro di sé. Cazzo, questo deve essere proprio uno grande! Uno famoso. “Come ti chiami amico?” “Dio!” mi rispose. “Si tu, tu incalzai”. “Dio” ripeté. “Sì amico, ho capito che dici io io, ma il tuo nome?” “Io sono Dio!” tuonò più forte. “E io sono Mosè” dissi. “Ma io sono il più grande” ribatté mister “Candore”. “Tutti possiamo essere grandi, tutti possiamo gareggiare, ma non ce ne danno l’opportunità. Leggi dei campioni del mondo nel calcio, nell’automobilismo, nel ciclismo, quando ci sono grandi parti del mondo in cui non si conosce il calcio, né le auto, né le biciclette. E chi ti dice amico che il campione del calcio, della bicicletta o il miglior pilota non sia uno che attualmente si spacca la schiena in una risaia e non ha i mezzi per diventare un campione? “Forse non hai capito amico, io sono il capo di tutti” iniziò a scaldarsi Dio. Solo dopo scoprii che ero stato in grado di fare incazzare pure Dio. Nella mia vita facevo incazzare gente non appena mettevo la mia penna su un foglio. Ma ripeto, era solo perché la gente non sapeva ridere, gente che litigava con sé stessa allo specchio. “Ok ok amico, non ti scaldare” cercai di assecondarlo. Doveva essere un esaltato con tutti i soldi che aveva. “Io sono Dio, cazzo!” Allora a quel “cazzo”, mi si aprirono gli occhi. Quel Dio non era poi tanto distante dall’umanità regressa di questo mondo, aveva qualcosa degli uomini che aveva lui stesso creato, e non meno l’incazzatura. “Se sei un Dio allora fammi un miracolo” dissi. “A me nessuno può mettermi alla prova, nemmeno il diavolo” disse incazzato. “Ok amico, il diavolo in questo quartiere si darebbe a gambe levate, mentre io resisto ancora e sono nel fuoco più di lui”. “Va bene” mi fa con il fumo che gli usciva dalle orecchie, e alzando una mano trasformò tutto in verdi prati e le macchine si verniciarono di fresco, e i bambini si spidocchiarono all’istante e diventarono lindi e profumati, ed io mi ritrovai addosso un bel vestito e denaro a sufficienza in una tasca, ed ero più bello di Rodolfo Valentino. “Wow” riuscii solo a dire. Quel Dio benedetto aveva trasformato tutto in un paradiso, e ci aveva messo solo un attimo. Un attimo solo, che ci voleva, mentre sindaci e amministratori da anni radicati alle loro belle poltroncine non erano riusciti nemmeno a sradicare le erbacce dai marciapiedi. “Ti piace tutto questo?” mi chiese Dio. “Certo, che razza di domande fai?” “Hai visto allora?” domandò alzando di nuovo un braccio e facendo risparire tutto lentamente, mentre ritornava tutto alla stessa merda di prima. Stavo iniziando a bestemmiare quando questo Dio mi precedette. “Lo so a cosa stai pensando, ma tutto ha un disegno, un disegno di Dio, cioè mio. “Sa pure disegnare, pensai”. “Se dessi tutto questo a tutti, chi resterebbe povero poi? E chi popolerebbe il paradiso se tutti fossero ricchi?” “Cazzo, fai solamente un ricco in più, almeno me”. “Tu sei un mio disegno” mi rispose. “Brutto figlio di una vergine” iniziai a infierire. “Vai Gabriele” ordinò al suo chauffeur mentre questi sgommava a tutta birra. “Vai Gabriele, qua la gente ancora non riesce a capire i misteri divini”. “Brutto figlio …”
E da allora nemmeno più le pettegole del rione avevano un argomento diverso di cui parlare, e ritornarono anche nei discorsi, alle solite robe del quartiere.
In questa fogna di città, non cambia mai niente!
In copertina Mario Sironi, Periferia, 1921. Foto di Umberto Ferri IUAV. Immagine presa da artibrune.com