Max e Flora. Il mondo Yiddish di Singer
Di Geraldine Meyer
Apparso a puntate, nel 1972 sul quotidiano yiddish Forverts, questo Max e Flora di Isaac Bashevis Singer non era mai uscito in volume. Oggi lo leggiamo grazie ad Adelphi e alla traduzione di Elisabetta Zevi. Siamo negli anni dieci del secolo scorso, a Varsavia in quella Polonia in cui, insieme all’Argentina, Singer ha imbastito una trilogia dedicata alla malavita ebraica. Gangster novel, viene definito anche questo testo, che rientra in un genere molto frequentato dalla letteratura yiddish e che, nella penna di Singer diviene un affresco umano, sociale e finanche religioso. In queste, come in altre pagine di quella letteratura, sembra non esservi soluzione di continuità tra parole, vita e Dio. Che sempre viene chiamato, messo in mezzo, fosse per essere lodato, fosse per essere bestemmiato.
E su questo crinale di devozione e perdizione viaggiano anche le vite di Max e Flora, appunto, cerniere di questo libro, apoteosi di inquietudine, menzogna, miseria, parte di una umanità piccola eppure grandiosa. Anche nelle sue meschinità. Un affresco sì, di una società, di un tempo di quella inguaribile contraddizione che è la vita umana. Max fa fortuna in Argentina, Flora è una attrice mediocre, analfabeta, dal passato ambiguo che solo Max, si scoprirà, non conosceva. Si amano, si desiderano, non vi è dubbio. Ma il recinto di parole e sentimenti, rancori e attaccamenti in cui Singer li fa muovere, è quello dell’incapacità di arrendersi al sentimento. Non possono fare a meno l’uno dell’altra eppure, in un certo senso, si sfruttano a vicenda. La fabbrica di borsette che hanno in Argentina è solo una copertura per portare oltre oceano giovani ragazze per farle diventare prostitute. E sarà proprio una di quelle a questo destino avviata a portare, almeno in parte, al crollo nel rapporto tra Max e Flora. E saranno parole dure, addii, scivolamenti, desideri di morte, impulso all’autodistruzione. Un desiderare e, subito dopo, un non desiderare più, in preda alla malinconia per ciò che si è lasciato. In fondo nessuno sembra muoversi in un ambito di autenticità umana, di amore o amicizia sincera. Solo qualche varco in un continuo sottofondo di qualcosa di sfuggente. È qualcosa che coinvolge tutti i personaggi del libro, anche quelli apparentemente secondari.
E mentre tutto attorno aleggia sempre odore di cibo, lo zar pare cadere, gli anarchici sognano un mondo nuovo, Max, Flora, Meir Panna Acida, Leah Lingualunga, Itche il Guercio, Srlulke il Tonto ( e i soprannomi raccontano molto, nella loro icastica brevità) si muovono su un palcoscenico che è sì quello della malavita yiddish ma che assume anche le sembianze di palcoscenico di una commedia umana, talmente rutilante e straripante da non farci capire subito quanto, in realtà, sia una tragedia. E un palinsesto di estrema complessità che chiama in causa molti piani. E per questo, giustamente, la Zevi, nella nota al testo, scrive: “Questi autori erano animato dall’intento di descrivere il mondo ebraico dell’Europa orientale senza idealizzarlo, raccontando la vita negli shtetl e nelle città in tutte le sue sfaccettature: da un lato l’estrema povertà, la criminalità, la prostituzione, dall’altro il lavoro onesto, lo studio, la preghiera, la bontà che sfiora la santità. Dopo il trauma della Shoà, di fronte al bisogno di mitizzare in qualche modo un intero universo annientato dal nazismo, ci vorranno anni perché la letteratura yiddish americana torni, proprio con Singer, ad affrontare quei temi.”
E in questo Max e Flora assaporiamo tutta questa sorta di ribaltamento, di racconto di umane sgradevolezze e meschinità, nevrosi e di ciò che appare come un vivere senza direzione.
Biblioteca Adelphi
Letteratura yiddish
Adelphi
2023
226 p.,