Onda su onda
Di Geraldine Meyer
Come ci ricorda Marco Rossari, nella postfazione a Gentiluomo in mare, Herbert Clyde Lewis che ne è l’autore:” […]fu preso dalla smania di evadere, scivolare, slittare, cadere. Standish ha una vita privilegiata e incappa per la prima volta in una macchia d’unto che ne segna le sorti, Lewis invece scelse proprio la strada sdrucciolevole della scrittura e per tutta la vita provò a danzare su quella fatidica macchia senza riuscire mai a farcela.”
Non si tratta di trovare elementi autobiografici in questo racconto lungo o romanzo breve. E neanche elementi di sovrapposizione tra l’autore e Standish, il protagonista. Quanto semmai “giocare” con la sensazione di annaspare che le vicende professionali di Lewis provocano e metterle in relazione con l’annaspare del protagonista di queste pagine. Un naufragio a buon fine la vicenda editoriale di questo libro (che scoprirete leggendo appunto la postfazione) non certo a buon fine quello nel buio dell’oceano che, come un grembo materno, si richiude su Standish.
E onda su onda e “in balia di una sorte bizzarra e cattiva” seguiamo la storia di quest’uomo, partito per una crociera per fuggire da un improvviso vuoto di senso. Un uomo più che benestante, con un matrimonio solido, due figli, un ottimo lavoro. Eppure. Eppure, a un certo punto qualcosa non funziona più. Ciò che manca, anche se non si sa bene cosa sia, sembra più impetuoso di ciò che si ha. È in quella crepa, in quell’improvviso cedimento che Standish decide di partire. Ma il destino ha in mente un modo forse diverso da ciò che lui pensava come possibilità di chiarirsi con sé stesso. Il destino è una scivolata su una macchia di unto sul ponte della nave con conseguente caduta nell’oceano.
Di per sé non sembra esserci nulla di originale nel preteso narrativo. E infatti il godimento che si assapora leggendo queste pagine non sta certo in una storia già letta, sentita o intravista. No, il godimento, che tanto per stare in argomento arriva a ondate insieme a un sottofondo di amarezza e tristezza, è nella postura linguistica e psicologica del protagonista. Che, appunto, viene definito dal titolo come gentiluomo in mare. Perché è questo che Standish resta per buona parte del libro. Perché cadere in acqua e urlare aiuto è una forma di disturbo sconveniente. Perché essere salvato vuol dire farsi vedere, dal resto dei passeggeri, bagnato, scomposto, con mutandoni ridicoli. Allora, anche in una situazione in cui l’immagine di sé e quella che si crede abbiano gli altri di noi, Standish cerca di non scomporsi. La nave tornerà indietro, si accorgeranno subito della sua assenza. Se ne accorgeranno sì, ma dopo troppe ore. E mentre a bordo si cambia rotta per andare a recuperare Standish, l’uomo ingaggia una battaglia con sé stesso, i ricordi, i rimpianti, il pensiero della moglie e dei figli, pensieri alti e pensieri prosaici. In un alternarsi molto umano di esaltazione, paura, speranza e disperazione. Mentre a bordo gli altri passeggeri parlano di lui come se pochi giorni di viaggio insieme fossero sufficienti per dire di conoscerlo, Standish scopre che, infondo, nemmeno lui conosceva se stesso. I primi inscenano una pantomima abbastanza classica al sicuro dalle onde, mentre il gentiluomo, forse per la prima volta, mette in scena un dialogo con un sé stesso davvero autentico. E ci chiede se sia davvero necessaria la morte per imparare ad apprezzare la vita o se non sarebbe meglio lasciarsi spiazzare da essa anche a costo di smettere di essere un gentiluomo. Un libro gravido di significanti, di immagini che rimandano ad altro, di scivolamenti (appunto) semantici e sentimentali. Un gioiellino
Piccola Biblioteca Adelphi
Letteratura
Adelphi
2023
152 p., brossura