Madri, di Marisa Fasanella
Di Monica Lanzillotta
Marisa Fasanella ha affidato alle cure di Castelvecchi il suo ultimo “parto”, Madri, che corona il lungo percorso di scrittrice iniziato nel 1994 con Maschere e lenzuola del Vicolo Santacroce. Madri si configura come una raccolta di undici racconti, ma in realtà è un “romanzo a episodi”: infatti il primo e l’ultimo racconto – Lena (La gatta con gli occhi azzurri) e Il corpo della madre (Il mio nome è Lena) – costituiscono l’apertura e la chiusura della complessa cornice che viene completata dalle tessere collocate nei rimanenti nove racconti.
Nella cornice è narrata la storia dei due protagonisti, Lena (che in realtà si chiama Virginia) e il vecchio pescatore, storia che il lettore non riesce ad afferrare del tutto perché la novellatrice è Virginia che, rimasta forzatamente nubile, è impazzita dopo la morte della madre, finendo in manicomio: quando era giovane sua madre le aveva impedito di frequentare l’uomo di cui era innamorata, quello che nel presente è diventato il vecchio pescatore e che era stato costretto a lasciare il paese, promettendole però che sarebbe tornato e l’avrebbe aspettata al molo. Dopo anni di internamento, era poi fuggita dal manicomio, convinta di chiamarsi Lena, enel presente narrativo, in untardo pomeriggio di marzo, giunge al molo dove trova il vecchio pescatore che si prepara a caricare sulla barca reti ed esche per pescare la «nudicella» (p. 5). Lena-Virginia indossa una gonna a pieghe, ha il capo coperto dal velo di pizzo nero e ha con sé una borsa di tela rossa che contiene i fogli su cui ha appuntato le storie di altre donne che ha sentito raccontare in manicomio, borsa da cui sporge anche la sua compagna fedele, la gatta dal pelo grigio e dagli occhi azzurri: tutto è lecito nel mondo folle da cui proviene la donna e la gatta, che è anche animale parlante, è vissuta con lei per circa cinquant’anni, animale che si staglia come oggetto transizionale, perché le ha fornito conforto psicologico, sostituendo progressivamente il legame perduto con l’uomo amato e con la madre.
Il vecchio pescatore non la riconosce subito, suppone che sia una prostituta o che sia venuta dal regno dei morti, ma lei lo segue sulla barca, collocandosi a distanza (lei è seduta a prua, voltata di schiena, e lui a poppa) e il vecchio teme che quello sia il suo ultimo viaggio perché la donna gli dice che aspetteranno insieme l’alba, quando le anime vengono a prendersi i morti annegati. Durante il viaggio, negli spazi-cornice dei racconti, mentre la sera cede il posto gradualmente all’alba, i due passano dalla lontananza-diffidenza alla vicinanza-solidarietà: il vecchio pescatore chiede alla donna di venirsi a sedere accanto a lui a poppa, le scalda le mani, si toglie la giacca e le copre le spalle, la stringe a sé perché ha freddo; la donna piega la testa sulle sue spalle, beve dalla sua borraccia e gli racconta delle storie. Le storie narrate da Lena-Virginia sembrerebbero allontanare la morte che incombe sui due, ricreando il meccanismo delle Mille e una notte: la donna, quando finisce di narrare una storia, nello spazio-cornice dello stesso racconto, anticipa i dettagli della storia successiva e quando racconta l’ultima storia e anche l’alba fa il suo avvento, tutto diventa chiaro, perché Lena-Virginia narra la storia che riguarda proprio loro due, quando erano giovani e innamorati. Il finale rimane aperto, non si sa se i due muoiano, ma effettivamente fanno trionfare l’amore sulla morte perché, pur diventati anziani, si sono ricostituiti come coppia.
Le nove storie raccontate da Lena-Virginia riguardano le vicende di alcune donne (Magda, Piera, Laura, Almira, Rosetta, Clelia, Ester, Lucia e Aziza) che ha sentito in manicomio, in qualche caso dalla voce diretta delle protagoniste. In tutte le storie compare la figura della madre, che ha i tratti della Grande Madre della religione mediterranea che dà la vita, generando, e dà la morte, uccidendo o punendo, anche per difendere i costumi e le tradizioni del suolo natìo da tutto quanto ritiene nocivo. Le madri diffidano della “straniera”, la donna che non è del posto, in quanto non è custode di usi e costumi locali:Domenica (detta ‘Ndilla) è “malafemmina”, ossia ribelle, perché è alloglotta (parla l’arbëresh, la lingua di un altro territorio, Civita, comunità di partenza della donna), non accetta la religione del marito e i costumi della nuova comunità d’arrivo (continua a portare gonne sgargianti mentre le altre donne sono spesso vestite a lutto o con abiti scuri). Le madri delle piccole città di provincia ritratte dalla Fasanella, quando perdonoil capofamiglia devono difendersi e difendere le figlie dalla società patriarcale per non diventare preda: Piera per esempio ha solo dieci anni quando muore suo padre, ha due sorelle più piccole e la madre, che ha trentatré anni, non riesce a tutelarla e della piccola Piera approfitta il prete e poi, quando diventa adulta, l’uomo che sposa, che la tratta come una puttana in quanto nelle case delle orfane «abitano indisturbati i mostri» (p. 29); anche Rosetta rimane senza “difese” perché il padre muore in seguito a un colpo apoplettico e i due fratelli emigrano in Germania e di conseguenza gli uomini del paese abusano di lei perché «le case senza uomini sono chiese sconsacrate» (p. 59). Le madri in posizione difensiva soffocano la loro sensualità: la madre di Clelia, dopo la perdita del marito, «ha sconfitto la passione con l’ordine» (p. 72); la madre di Lena, rimasta vedova, ha tenuto il suo giovane corpo lontano dallo sguardo maschile indossando vestiti larghi. Sempre in posizione difensiva, le madri “castrano” le figlie: se la figlia adolescente rimane incinta, cerca di farla abortire; se vuole emanciparsi, cerca di impedirglielo. Lucia, per esempio, vuole fare la maestra, ma la madre la ostacola perché dice «Non ci sono maestre nella nostra famiglia» ed è preoccupata per le idee strane (socialiste) della figlia, ereditate dal «sangue pazzo» (p. 96) del nonno e dal padre. Le figlie della Grande Madre assumono pertanto diverse volte una postura fetale, esprimendo nostalgia per il grembo felice: per esempio Piera, quando il medico le ordina di prendere le pillole, «flette le spalle e le avvicina alle ginocchia, incrocia le mani sotto il mento» (p. 23). Alle donne di Madri sono associati l’acqua e gli alberi, in quanto elementi tradizionalmente simbolo della maternità. Per quanto riguarda la proiezione dell’imago materna sull’acqua basti pensare al simbolismo dell’acqua battesimale o ai Veda, dove le acque sono dette “matritamah” (“le più materne”): come sostiene Gaston Bachelard in Psicanalisi delle acque, l’acqua è latte che dà nutrimento come quello della madre e solo l’acqua può cullare come una madre, e non a caso sulla barca-culla stanno il pescatore e la sua Lena-Virginia, riconciliatisi, ormai anziani, con le acque materne e, sempre nella cornice, l’uomo pesca la «nudicella», che è la «prima forma di vita del mare» (p. 139). Il mare poi compare in alcuni racconti, anche con il rumore dello sciabordio della risacca: per esempio la risata di Lena ha il «suono della risacca» (p. 7). In altri racconti l’acqua è quella del fiume e della pioggia, che riportano anch’essi alla maternità: «Ha spiovuto ma il cielo è un ventre ingravidato d’acqua» (p. 108), si legge in un racconto. Per quanto riguarda gli alberisono presenti in quasi tutte le storie narrate da Lena-Virginia e nell’ultimo racconto la pianta è evidente incarnazione della Grande Madre: «La madre è radice. Il tempo le sfoltisce i capelli, aggrappola pelle sull’osso, succhia linfa dal tronco senza corteccia. La madre allunga nodosità ammollate di terra e le guarda ormai scoperte infiltrarsi nella casa» (p. 125). Intorno al vasto polimorfismo e polisimbolismo dell’albero, sia a livello mitico che cosmologico (dall’ideogramma in forma di albero gigantesco, che rappresenta il Cosmo, all’Albero della Vita delle Sacre Scritture all’albero del Maggio) esiste una vasta bibliografia e basti accennare al Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade, che sostiene che l’albero rappresenta il Cosmo vivente che si rigenera senza interruzione (l’albero della “vita-senza-morte”): l’albero ha il tronco, che si sviluppa in verticale, ha il lattice, genera e perde di continuo foglie e frutti, percorrendo il ciclo di morte e rinascita innumerevoli volte. Gli alberi, come la Grande Madre, danno la vita e la morte, contengono maschile e femminile, sono ermafroditi: basti pensare al simbolismo fallico del tronco, al fatto che in latino gli alberi hanno desinenza maschile e genere femminile o ai numerosi miti che riferiscono di eroi rinchiusi nell’albero materno (Osiride sta rinchiuso da morto nel cedro, Adone nel mirto, ecc.).
Le storie raccontate in Madri abbracciano unperiodo che vadai primi anni del Novecento ai giorni nostri, ma il tempo è indefinito perché la Fasanella vuole accordare alle storie valore universale, pertanto conferisce connotazioni vaghe alle marche temporali: gli eventi accadono «in un pomeriggio di marzo», «in un giorno di fine ottobre», «alle diciassette di un pomeriggio di fine estate», «il 22 dicembre», ecc. (pp. 5, 15, 23, 35). Per le stesse ragioni anche i luoghi sono indeterminati: il paesaggio che fa da sfondo è collocato a sud ed è costituito per lo più dai vicoli asfissianti e malevoli dei paesini, dalle montagne aspre, dai luoghi collocati sulle distese d’acqua, fluviale o marina, ma è un sud del mondo come tanti altri. Pochi sono infatti i dettagli che ancorano i racconti al suolo calabrese, perché la scrittrice impiega con molta parsimonia i vocaboli dialettali, la toponomastica e la descrizione di usi e costumi. Anche lo stile ha le marche della mediterraneità, specie nell’uso frequente degli epiteti: Lena è la donna con la «borsa di tela rossa» e «la gatta dal pelo grigio e dagli occhi azzurri», dettagli ripetuti ogni volta che la donna fa la sua epifania; l’«uomo con il camice» (p. 116) è epiteto del medico; ecc. Insistite sono le riprese anaforiche che, oltre a far svaporare la prosa nella lirica, ipnotizzano il lettore:inLinda a scandire il racconto sono «Copriti, mamma», «Piove»; in Il corpo della madre sono «Il corpo della madre», «la madre», «ogni anno a luglio, la madre distruggeva la casa», «Zitta, madre!», «la figlia braccia legate alle spalle». La scrittura di Madri è intessuta oltre che con epiteti e anafore, anche con termini ricercati e tecnicismi: per esempio per la rappresentazione della pesca compare la sciabica, la rete a strascico e l’amo a paletta; per l’inferno nigeriano della prostituzione vengono evocati il rito juju e la madàm. Il lettore si smarrisce nelle trame a volte difficili da seguire perché la Fasanella ha scelto come novellatrice Lena-Virginia, che non può che parlare in modo sconnesso poiché è uscita dal manicomio e riferisce a sua volta storie di vite ingarbugliate come una matassa di lana di cui «trovi il bandolo e inizi a dipanarla e non sai mai se riuscirai ad arrivare all’altro capo del filo» (p. 19). Se la trama non si dà immediatamente, perché può essere compresa solo percorrendola tutta e mettendo insieme le tessere della cornice, il lettore non desiste perché è ammaliato dalla scrittura strutturata su periodi brevi, secchi, ma molto lirici, in cui ricorrono similitudini o metafore ossessive, per esempio quelle relative ai corredi (le «lenzuola erano rigide come compassi» o gli «asciugamani di lino rigidi come compassi», pp. 43, 123) o a parti anatomiche (la dentatura di Lena è «gregge storto» e «uno storto gregge» di denti ha anche la madre di Linda, pp. 114, 128). Alla lingua dunque la Fasanella affida il compito di trascinare il lettore nelle ambivalenti acque materne.
Narrativa
Narrativa
Castelvecchi
2021
148 p., brossura