Quella “cosa” che è meglio non dire
Di Geraldine Meyer
C’è un argomento. Anzi. L’argomento per eccellenza e che, forse proprio per questo, viene costantemente rimosso. Quale? La morte. È difficile parlarne. Talmente difficile che, nella nostra società, si evita di farlo. O lo si fa attraverso la spettacolarizzazione della morte stessa, il cordoglio social, il necrologio che, spesso, altro non è che un autoelogio di chi lo scrive. Ma della morte non si parla. Resta un indicibile nella sua essenza, un interdetto che si esorcizza in tanti modi. “E’ venuto a mancare” “Ha perso il marito” “Il nonno è partito per un lungo viaggio”. La morte resta un argomento che si esorcizza a partire dal linguaggio. Nel suo bellissimo Sulle strade del silenzio Giorgio Boatti, riporta le parole di un abate, queste: “[…]Monaci che sapevano di morire e accettavano il proprio destino e la propria dipartita. E questo è avvenuto in un mondo, quello di oggi, dove non accettiamo più di affogare. Non accettiamo che tutti dobbiamo accomiatarci e andarcene. Le generazione passate lo accettavano, spesso con semplicità”. E allora, vai di protesi, fisiche o mentali, mediche e di linguaggio appunto, per dimenticarci di essere “creature tra creature”.
E anche per questo, forse, ancor più difficile è parlarne con i bambini. O almeno così pensiamo noi adulti. Allora se il nonno muore è partito per un lungo viaggio. Se una salma viene allestita in casa i bambini non devono vederla, se muore un animale di famiglia meglio dire che è scappato. Insomma la morte, a noi adulti, ci mette in difficoltà. Ma se, per caso, decidessimo di parlarne ai bambini (ma non solo verrebbe da dire) allora possiamo farlo con questo bellissimo e struggente Tutti i cari animaletti, di Ulf Nilsson, illustrato da Eva Eriksson, tradotto da Laura Cangemi e pubblicato da Iperborea.
Il libro, graficamente, entra subito in medias res con l’immagine di tante piccole tombe campestri, con croci di legno, ciascuna recante un nome. I tre protagonisti sono tre bambini che, dopo aver trovato un piccolo bombo morto, decidono di donargli una cerimonia funebre a tutti gli effetti. Un rito, un passaggio, un congedo. E siccome i bambini sono molto seri decidono, non solo che deve essere così per tutti gli animaletti morti ma, si specializzano ciascuno in un ruolo: chi scava il terreno, chi scrive poesie dedicate al defunto e chi piange a dirotto. Ma, soprattutto, ogni animaletto avrà un nome. Perché i tre bambini capiscono quanto sia fondamentale non essere seppelliti anonimi.
E allora via di animaletto in animaletto, con la serietà e la compunzione dei bimbi, il loro intuire che quelle creature non stanno dormendo. Sono morte. E ciò che possono e devono fare è garantirgli un saluto, parole amorevoli e lacrime. Anche se non c’è un legame d’affetto personale con quegli animali, i bimbi sanno che la loro morte li riguarda comunque, li interroga ma non li paralizza nel dolore. Perché i bambini “sanno la morte” come sanno che la vita continua. Ecco perché il libro si conclude con la poesia
Lunga è la vita, breve la morte
Si deve morire, ma solo per poco
Poi cresce l’erba, pian piano e il muschio,
sopra la tomba sbocciano i fiori,
e finalmente scende la quiete.
E poi l’autore ci congeda ricordandoci che i tre bambini, il giorno dopo saranno presi da qualcosa di completamente diverso. Perché così deve essere.
I miniborei
Letteratura per ragazzi
Iperborea
2022
61 p., Ill, rilegato