LA “RUVIDA GENTILEZZA” DI DAVID LA MANTIA IN “FINESTRE. TACCUINO 1935-2022”.
di Federico Migliorati
Era una poesia “onesta” e vera quella che ricercava Umberto Saba e lo è anche la scrittura di David La Mantia come è dimostrato in questa sua ultima fatica letteraria da poco apparsa per Inschibboleth sotto il titolo di Finestre. Taccuino 1935-2022. Tranche de vie, romanzo di formazione sui generis, lacerti di un’intensa esistenza, memoir sferzante, ampio affresco di cenni autobiografici, il tutto condensato in brevi, diretti brani dispiegati in un linguaggio che si pone a metà tra lirismo e concretezza affondando nella carne di una vita sofferta e immensamente ricca di stimoli e di scoperte, mai doma seppur nel disincanto.
A sessant’anni La Mantia, docente di materie letterarie nella sua Grosseto dov’è nato da padre siciliano giunto in Toscana al seguito degli americani e da madre di Scansano, ideatore di riviste, già ghost writer, promotore di iniziative culturali, molto attivo anche sui social con gruppi e pagine dedicate al mondo della poesia e con un curioso passato da arbitro di baseball (resosi necessario per sbarcare il lunario) può permettersi di osservare con uno sguardo a un tratto franco e discreto il volgere di un tempo senza cadere nella retorica o nella superficialità. Il suo è un occhio vigile e sempre aperto, che sperimenta certo la fatica dell’incedere su un cammino lastricato di malattie e difficoltà (sue e di generazioni familiari), ma altresì capace di raccogliere l’eredità del miglior Boine, del più sferzante Bianciardi (della cui Fondazione peraltro è componente nel comitato scientifico) da una parte e dei versi di Penna dall’altro per condensare pensiero e visione, sogno e quotidianità: per questo la poesia che cerca, che trova, che lo sconvolge è solo quella dei derelitti, di quanti tendono la mano per un aiuto, della povera gente ignorata e vilipesa da tutti come lui stesso si sente, scevro però da ogni pietismo di maniera.
E nel calarsi in questo contesto fortemente identitario egli dà sostanza a testi di ruvida gentilezza, facitore di quei “gesti lievi” di cui ha dato più volte prova e che ha condensato nella precedente opera poetica: il rapporto con i genitori che il tempo non ha sciolto, l’amore nutrito per le figlie adottate, il fecondo legame con l’universo delle lettere (evocativo, tra i tanti, l’accenno all’incontro con l’arcigno Fortini al quale sottopose alcuni suoi versi), le solitudini e le “imprese” dei senza voce sono tracce continue che nel volume emergono qua e là, con un felice esito di tessitura e di ricamo lungo la trama degli anni. Sullo sfondo di una città “senza storia e senza volto, di ricchi e di cimiteri”, si innesta una storia esistenziale che ha il sapore di una dimensione altra, ignara e aliena dalla frenesìa di successi e di ricchezza, figlia e madre invece di una gioia da condividere, f0oss’anche la più piccola. Nel testo di La Mantia l’io presente in tutte le pagine è in realtà ridotto all’essenziale, non si impone né sgomita per autocelebrarsi, tutt’altro: è un io impaniato di fronte alle bizzose scelte del cammino umano, naufraga spesso nei mari procellosi e per questo diventa una prima persona narrante che molto abbraccia e molto ama, senza limiti, fino a che gli è possibile. È una scrittura d’arte, di quell’arte che respira di incanto e visione, descensus ad inferos e ultima spes, preda dell’entropìa e proprio per questo felice d’essere tale. C’è una profonda cura in questo autore, instancabile amante della cultura: cura degli altri, sempre, nella grande ricchezza di atti posti in essere per con-dividere uno sprazzo di felicità, cura del ricordo acciocché nulla si perda di ciò che è e dà valore, cura del creato e della più piccola delle azioni “accarezzate” dal suo sguardo, cura, soprattutto, del parlare chiaro e di un orizzonte sincero. Il taccuino-diario di bordo, che avanza e retrocede a più riprese, avanti e indietro temporalmente come un’onda marina, s’inciela di rara bellezza come in questo passaggio che identifica l’intera produzione: “La poesia è tutto fuorché pura. Anche quando vive nella natura, ha il sapore della resina, delle mani appiccicate, della terra rovesciata dalle formiche”. Una poesia, una scrittura dunque che non temono gli accadimenti, quali che siano, ma che si servono di questi per guardare il mondo al rovescio, oltre l’epoca imperante di pregiudizi, ipocrisie, falsità e abitudini, da una specula dove attendersi l’imprevedibile e l’inatteso, l’amore e il conforto, le piccole cose, i “non eroi” e le loro mancate imprese, mai la bugia o la falsità. E, sempre, con ruvida gentilezza.
Narrativa
Inschibbolet
2023
124 p., rilegato