LA “TENEBREZZA” DI DAVIDE CORTESE
di Federico Migliorati
Ho negli occhi il sigillo del buio.
Porto un nome tremendo di luce.
Ti incontro nello splendore di un attimo:
il solo in cui siamo eterni.
Nel pugno il dado di un demone antico.
Perdona.
Il mio nome
è addio.
(D. Cortese)
“Sono un inquieto:/non c’è null’altro di me da sapere” scrive di sé Davide Cortese in un verso di “Tenebrezza”, la nuova silloge apparsa per L’Erudita Edizioni con la prefazione di Anna Maria Curci e nella quale è condensato un intenso sguardo poetico in cui l’Io si trova a confronto, in un rapporto dialettico, con l’Altro, con un alter ego che assume varie forme e dimensioni.
L’inquietudine del poeta si misura ed è cifra di un universo in continuo mutamento, magmatico si direbbe: egli è conscio che non è più tempo di letterati vati, di guide, di maestri in grado di segnare il cammino. Ecco allora l’imperfezione, il rimorso per le parole profferite, l’incapacità di raggiungere il proprio obiettivo, il silenzio ricercato quale pena del contrappasso, la finitudine e la debolezza come consustanziali all’essere umano (“ogni lembo di me/è offerto al taglio della lama”). Come nella più pura e alta poesia della classicità (con dediche-tributi, tra gli altri, a Pasolini e Calvino), il verso raccoglie una sapienza antica: il valore di un’infanzia ormai perduta osservata in tralice nella sua grandezza, come chiarore stellare (“gloria”) che giunge ormai smarrita nell’età adulta.
È quasi ossessivo e parossistico questo continuo rimando a un tempo altro, lontano, da cui giungono lacerti, frammenti di sé assurti a esempio tale da diventare mito inossidabile. Buio, tenebre, ombre, malombre assumono un ruolo precipuo nella composizione: Cortese si rivolge a un’identità sconosciuta per osservarsi, per vedere una proiezione di sé, una specula attraverso cui cogliere ciò che altrimenti non sarebbe possibile (“il mio spettacolo”, ma anche un segreto confidato dal sole). Di fronte si trova “un nudo amore”, un “silenzio antico”, nelle parole non dette, nei pensieri vorticosi che coinvolgono la propria esistenza e quella della madre. Soccorre, mentre si assiste a un tumultuoso andirivieni di un tempo amico-nemico, tra colpi di coda dei sentimenti, il valore della poesia che tutto condensa e tutto assomma, una “poesia che è per sempre”. E con la scrittura in versi l’amore, a cui pure non far caso, popola l’eternità, ne è fonte e linfa e l’umanità assurge a scintille e istanti di questo tutto: una visione panica attraversa e abita alcune delle epigrammatiche poesie conferendo, in un dire secco ed espressivo, il significato di una visione, di una metaforica cornice del pensiero. Il viaggio in terra lontana e straniera si fa cammino anche ideale verso un richiamo, una presenza indefinita, un “silente deserto” dall’irresistibile bellezza; è invece la condizione di “naufrago” quella che vive nell’amata, originaria Lipari patendo “una tragica sete di approdo”. Nella delicata, levigata, elevata scrittura di Cortese si assommano emergenze interiori scandite da ossimori e metafore in un saliscendi emozionale mai disgiunto da una dialettica con il nostro tempo dove qua e là assume risalto la personificazione degli elementi naturali e la simbiosi tra l’Io e l’altrui essere. Bene e male sono in perenne lotta ed anche un assassino assume in sé la duplice condizione di “selvaggio e bambino”: ma alla morte si risponde con un sorriso, in questa “tenebrezza” dove ancora l’afflato amoroso perdura, a guadagnare vita.
Poesia
L'Erudita Edizioni
2023
72 p., brossura