Ci vediamo al bar
Di Geraldine Meyer
Parlare di terapia del bar è, in fondo, parlare di terapia della relazione, della parola. Isole, pezzi di casa pubblica, luoghi di sosta e transito, luoghi in cui il tempo torna bambino. Chi non si è trovato a decantare un momento di gioia, a lenire un dispiacere, a parlare del mondo e di niente in uno di questi simboli di una geografia sentimentale? Di questo ci racconta Paolo Ciampi nel suo La terapia del bar. Piccole storie di luoghi resistenti, baristi filosofi e varia umanità.
E già nelle parole del sottotitolo c’è tutta una trama, una costellazione di figure e emozioni. I bar con i loro jukebox, i biliardini e i flipper sono una mappa di un’Italia che è stata, di un’Italia che in alcuni luoghi continua ad essere, resistendo all’isolamento di due occhi fissi su un cellulare. Un isolamento che è ben diverso dalla solitudine perché, volendo, in un bar si può restare da soli. Ma insieme. Anche non partecipando alle chiacchiere si può entrare in un universo/palcoscenico in cui, forse come in nessun altro luogo, ci si può svestire dei panni delle convenzioni. Luoghi in cui, come ci dice l’autore, si è sé stessi anche quanto si millanta di essere altro.
Luoghi quasi come romanzi di formazione quando, da bambini, con i primi soldini dati dalla mamma, si andava per comprare caramelle, cicche americane, bibite. E ci si sentiva, per un istante, adulti. Luoghi in cui ci si trasforma in tecnici della nazionale di calcio, esperti di geopolitica, di meteo, di qualunque cosa. Ma, probabilmente, con una maggiore autenticità dei veri professionisti.
I bar evocano ricordi, li custodiscono e li generano, tra le chiacchiere, i caffè, gli aperitivi e i vagheggiamenti filosofici dei baristi, veri eroi delle epopee umane che tra tavolini e banconi si consumano in una commedia, in un balletto, in una sinfonia che è sempre, comunque, a più voci.
Che siano di passaggio o che siano “il solito bar” ciò che conta è quel loro carattere sbarazzino e corsaro, intimo e pubblico insieme, quel loro essere, un po’, il prolungamento di casa nostra. Un luogo riparato eppure aperto alle intemperie della vita, qualunque cosa esse siano.
Ma attenzione, qui si parla e si fa l’elegia (giustamente) dei bar di un certo tipo, non dei loungebar, dei winebar e di tutte quelle cianfrusaglie che, in un certo senso, altro non sono che l’incarnazione del nulla dei social. Ecco perché l’autore si adira quando sente parlare di facebook come di un globale bar virtuale. Il bar non è virtuale, è esattamente l’opposto della virtualità. E, talvolta, anche della virtuosità. Ma questo è il suo bello.
Tra ricordi, citazioni di canzoni, fughe e ritorni, queste pagine sono pura poesia. La poesia di luoghi in cui non accade nulla eppure accade tutto.
Piccola filosofia di viaggio
Saggistica, letteratura
Ediciclo
2023
94 p., brossura