Luca Ariano conserva la memoria dei senza nome
Di Rossella Pretto
Lo leggi qui e là, durante l’estate che non ha termine e che ti porta inesausta e stanchissima a non rientrare mai a casa, lo leggi e ammiri quella calma che si accasa nei luoghi, negli interstizi dove la luce filtra a fatica ma che restringono il campo scelto tra destino ed elezione. Lo leggi e la tua fibra pian piano si ammorbidisce nella consapevolezza di un respiro amoroso sul mondo. È La memoria dei senza nome (Il Leggio Editore, 2021, collana di poesia curata da Gabriela Fantato), di Luca Ariano, un librino con una sua aspirazione soddisfatta alla purezza dell’occhio e del cuore, che sa pescare dal cilindro le parole e combinarle insieme perché il filo diventi successione di perle e dono. È composto di quattro sezioni e di una intervista finale a cura di Luigi Cannillo, più una prefazione di Alberto Bertoni. Disseminate nel testo tante epigrafi come pietre miliari a guidare il cammino, a cominciare da quella di apertura di Gramsci, programmatica al massimo grado: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani». In una intervista, infatti, Ariano spiega: «Ho imparato, negli anni, a non parlare solo della mia vita, delle mie gioie e dei miei dolori, ma, attraverso le vite degli altri, a comprendere anche la nostra epoca e la realtà che ci circonda nei vari aspetti negativi e positivi e questo, credo, rimarrà nella mia scrittura fino a quando avrò la forza e la voglia di comporre versi». Eccolo qui, dunque, questo ragazzo fatto uomo che ascolta e restituisce, guarda, con quei suoi occhi acuti che tutto accolgono, soprattutto le voci di chi sussurra, di chi non si confonde più tra le strade del progresso, e in questo senso non è anonimo perché spicca come diverso e chiede parola. E la ottiene parlando la lingua della poesia, raccontandosi tra i versi di Ariano, raccontando sé stesso e l’eclissi del mondo. Un esempio, tra i primi:
“Quant donaria per viure amb tu
i creure que pot servir d’alguna cosa.”
“Quanto darei per vivere con te
e credere che potrebbe servire a qualcosa.”
David Castillo
«È una triste primavera»
sussurri a denti stretti Enrico
mentre fuori batte la pioggia d’aprile…
Ti pare immenso il letto di notte:
l’impronta del capo sul cuscino…
il suo profumo… il sorriso,
le stanze ti soffocano.
Teresa anche quest’anno Sant Jordi:
tutti tra rose e libri, ma dov’è Fiulin?
E tu Teresa fino a quando camminerai?
Non hai visto il libro di poesie
di Castillo… la copertina…
quel gatto ricorda il tuo.
Ti leggeranno versi al telefono?
Pedali tra gocce che pungono
i tuoi occhi Fiulin pensando
che è proprio una triste primavera
senza aver visto le risaie allagate.
Il coro che accompagna l’autore lo spinge a formulare domande senza risposte, interrogativi sulla vita, sull’agire del singolo e sulle storture di un’esistenza dominata dalla corsa e dal residuo di un tempo che sfugge e muta nelle stagioni che si avvicendano.
Per le antiche strade di Ferrara
ti senti in un quadro metafisico
di De Chirico: anche a Rosa piacerebbe?
Vorresti essere in quelle terme con lei?
Ebbero mai vita quei vicoli?
Giochi di bambini… baci di amanti
sotto un androne… ci pensi in un’osteria
dalla cucina vagamente ebraica.
In una domenica di pioggia laora l’Enrico:
per cosa ormai? Debiti… un mutuo…
il futuro per chi?
Giggino non ricorda il suo mestiere,
è rimasta una targa d’oro e lui sul divano
come se le ore mai passassero…
Li ha impressi nella mente quegli anni Elio
ma non ne parla più… non ne scriverà mai:
la marcia… gli scioperi… la fabbrica occupata
«Hanno smontato tutto! Hanno vinto i soliti!»
«Abbiamo perduto…»
Tutto è pervaso da un sentore di nebbia che stinge l’anima mentre avanza la memoria di un giorno che non è più. Non è la vita di oggi, infatti, che guadagna il primo piano, il più delle volte, è una sorta di ricordo redivivo che mal si accompagna coi tempi odierni. Ed è la memoria di cose e persone, come quella dei maestri di Ariano che lottano per tornare sonori.
In questa tenerezza, nel lieve disagio che sperde, penetrante e intensissimo è il desiderio di amore, i baci, gli abbracci, il viluppo dei corpi che si sperano sempre indistinti in quel bisogno di contatto e di vita densa nell’incontro.
Ti intimorisce sempre il temporale
fuori stagione, tra lampi e tuoni
non saresti scappato in collina.
Franano i sassi, il rinculo del fucile
e forse saresti morto disertore.
Un’altra domenica attendendo
il campanello… i suoi passi
di farfalla e il letto meno largo
sotto vetri puntellati di pioggia.
Un sole improvviso nel parcheggio
tra il rumore di camion, corriere
e gas di scarico ma voi sentite solo
il profumo di fiori bagnati:
il vento sfiora i suoi capelli,
la tua mano carezza il volto stanco
tra la prima luna e nubi come monti
oltre il fiume in piena.
Un bacio d’autunno
che nessun refolo porterà lontano.
Tutto passa, molto si dice, altro resta sospeso in quei puntini che intrecciano il testo, nei verbi che talvolta vengono omessi come per una domanda più secca, senza requie, impigliata nei cristalli di nebbia. Tanta di quella vita non si scongelerà, eppure il sogno continua a palpitare quieto grazie alla capacità di ascolto fino di Luca Ariano.
Pedali rapido in un’alba
per quei boccoli
– quasi Melozzo,
come un principe a corte.
Baci e sguardi
come la prima volta:
ottobre non lontano.
La senti la sua pena
sulla pelle, non diversa
dalla tua: Giggino
ti appare in sogno…
da tradizione napoletana
numeri da giocare.
Chissà un viaggio da vincere
con lei che non vedrà il mare,
eppure di sera dalle finestre
sente l’odore.
Cadono stelle da pregare
sulla spiaggia con un sogno
da stringere sul petto
come un anello di rame.
Radici
Poesia
Il Leggio
2021
96 p., brossura