Rileggere Papini
Di Piero Dal Bon
Abbandonai l’enciclopedismo ma non volevo cadere nello specialismo: il mio don giovannismo cerebrale quando già ero sul punto di slanciarmi nelle braccia di un solo amore. Il sapere oramai non mi bastava: volevo agire. Ero stanco di aspettarla, di commentare, di giudicare quello che facevano gli altri, di limitarmi a criticare e a disfare. Il mondo esclusivamente cererable, vertebrato e di acrta nel quale mi dibattevo mi si rivelava arido e senza speranza. (Un uomo finito, 1912)
Essere piccolo o farsi piccolo. Questo doppio imperativo kafkiano, che hanno autori di nazionalità molto diversa, Giovanni Papini non lo avrebbe mai accettato, toscano intemperante (Firenze 1881-1956), autore di un’opera la cui massima aspirazione, equidistante da Goethe e Nietszche, fu sempre la grandezza: essere dio, sostituirlo dopo la sua morte. Opera contradditoria quella dell’autore che ci impegna, discontinua, a momenti ridicola nel suoi eccessi egolatrici e narcisista, ma ricca in picchi e abissi. Un lettore come Borges così puntiglioso lo promuoveva da tempo e richiamava il suo recupero, un riscatto che ancora si ritarda nella penisola per le persistenti ripugnanze ideologiche che suscita questo autore, narratore, saggista, poeta e polemista prosatore lirico, filosofo e enciclopedista e fondatore di riviste di straordinaria importanza splendide, ricche in proposte e ricerche. Fu anche un insolente viaggiatore per epoche diverse: furioso espressionista, scettico futurista, mendace narratore autobiografico, avanguardista sfrenato e conversatore pungente. In tempi di bassa marea etico-morale, di pallide mediocrità di cauti amministratori di sé e di specializzati e asfissianti specialismi, Papini può indicare e non solo con le sue sole opere, ma anche con la sua curiosità e camaleontica generosità, così come nelle sua vita, una tensione, un arco che tende a un’uscita, uno spasmo- forse tardoromantico, forse in sospetto di uno Sturm und Grand-, una vocazione per la totalità, impossibile e irraggiungibile nel tempo della frammentazione, dell’ibridazione e della paralisi atrofica che è anche il tempo, il nostro ipercapitalistico, epigonale, o postepigonale- dal quale escono queste linee ammirate.
L’irascibile toscano non lasciò opere chiuse, risolte in compiutezza; sì invece schegge, frammenti di un’anima vocata a un assoluto irraggiungibile, scritti in una prosa come un martello, estranea alle velature, eloquente e impetuosa. Non è facile scegliere tra questi scritti di spavalda e debordante furia biologica.
Valgano per iniziare poche indicazioni biografiche, alle quali dovrà seguire un abbozzo che permetta di approfondire la personalità di Papini, attraverso i principali movimenti e le correnti della sua epoca, fino al triste e funebre seppellimento, quello di uno scrittore che finì per abbracciare il fascismo. Le origini di Papini sono umili. Dalle numerose ricostruzioni autobiografiche di questo autore eccelsamente egotista possiamo estrarre frammenti che affabulano un’infanzia e un’adolescenza marcate dalla coscienza assai precoce di sapersi diverso, vissuta nello stesso tempo come condanna e come supremo sentimento di una vocazione. Fin dalla giovinezza mostrò una crescente intolleranza per il letto di Procuste di una severa educazione cattolica e si caratterizzò per un’inquieta e vorace accumulazione di letture, molto caotica. Con il il passsare degli anni lui stesso si autoaccuserà in numerose occasioni, nonostante allo stesso tempo lo celebrasse, quello che considerava il suo principale difetto di formazione, il suo enciclopedismo disordinato e accumulativo che obbedisce, alla fin fine, a una tensione conoscitiva e a una necessità di fagocitare esperienze altrui, di vampirismo viscerale, che si confonde con una marcata necessità di autoaffermazione. Precoci sono anche le esperienze di raggruppamento “avaguardistico”, e di promozione culturale, che hanno un amaro inizio nella rivista La trinità e un’oggettivizzazione memorabile nella rivista dall’emblematico titolo Il Leonardo, fondata da un gruppo di giovani intellettuali caratterizzati da una sorta di individualismo anarchico e idealista tra i quali spicca, nel privilegiato incarico di codirettore, il nome di Prezzzolini, che lo accompagnò come interlocutore, a volte solidale, altre antitetico lungo tutta la sua traiettoria intellettuale. La rivista, così come si affermerà più tardi si converte nel principale centro di diffusione dell’eclettico pragmatismo italiano, nel quale confluivano la diffusione asistematica del pensiero niceano e un bergsonismo sui generis. Ed è in questi anni che Papini inizia la pubblicazione dei suoi libri, dai brevi racconti allegorico-metafisici del Tragico quotidiano (1906) ai contundenti saggi di filosofia paradossalmente antifilosofica, testi polemici nei quali si mostra a favore di una filosofia antifilosofica, testi al fosforo nei quali si mostra a favore di un vitalismo atavico e antintellettualistico. E’ di questo anno è il suo principale viaggio a Parigi, dove conosce, grazie alla sua amicizia con Sofffici, Begson, Peguy e Gide, personalità questa ultima di grande rilievo che influirà in grande misura nella sua formazione filosofica e artistica. In effetti potremmo considerare Papini come una sorta di Gide, ma più greve, meno lievemente cartesiano, con un umorismo più rozzo, acerbo e mordace.
Nel 1908 si avvicina al circolo della rivista La voce, durante quegli anni diffusore delle voci più propriamente espressioniste della cultura italiana, dove si danno apppuntamento la protesta per l’abolizione dei generi, la scommmessa per una prosa di elevata incandescenza lirica, la predilezione per una specie di satura lanx, quest’ultima composta in parti uguali di scherno rivolta e risentimento, insieme per la predilezione per i registri dello sfatto e dello scomposto. L’allontanamento si produrrà nel 1913, anni in cui Papini, insieme a Sofffici, decide di fondare Lacerba, episodio cruciale di avvicinamento all’esperienza futurista e ultima impresa nella manovra avanguardista e sovversiva del Papini più militante, ordita da una barrricata di furore iconoclasta il cui fine non era altro che la distruzione e la tabula rasa e l’assalto. A questa esperienza risale la temeraria serie di Stroncature, pubblicata nel 1916, critiche con le quali si proponeva di demolire i monumenti della tradizione e non solo italiana (tra i quali si trovavano Bocccaccio, Goethe e Shakespeare, per esempio), così come rivelare, con opportuna franchezza, le sue preferenze lettterarie tra quanto si stava scrivendo, in prosa e in verso in Italia. Nel 1912 appare quella che è forse la sua opera maggiore Un Uomo finito, diario di un tumultuoso andare a picco, testimonianza della ricerca della verità come antisala della sua conversione religiosa, che data al 1921, come conseguenza di una prolungato esame di coscienza che lo porterà sino all’apologia cristiana e al cattolicesimo ufficiale. Anche nel 1921 apppare Storia di Cristo, opera che sul fronte ideologico beve alle acque di un cattolicesimo e di un anticapitalismo reazionario e rurale che troverà il suo portavoce nel comitato di redazione della rivista Il frontespizio. Sono anni in cui scrive le favole sadiche e fantastiche di Gog (1931). Gli ultimi vent’anni di Papini sono marchiati a fuoco dalla sua adesione al fascismo, che lo convertì nel suo scrittore ufficiale. Il canto del cigno sarà il romanzo Il diavolo del 1953.
Colllocare il proteico Papini in una tradizione o corrrente o movimento non è impresa facile, tenuto conto della varietà dei suoi interessi e del suo camaleontico opportunismo: universalista moderno e antico, decadente egotista e titano messianico, tradizionalista e avanguardista in perpetua ribellione con le formule fisse gli schematici nozionismi e le verità immobili e date. I momenti del fervore più momorabili li posssiamo trovare negli anni che precedono la conversione, o la documentano
Bisognerebbe classificare i primi anni dell’attività intelllettuale di Papini sotto l’etichetta di pragmatismo ed di paganesimo individualista. Sono gli anni del Leonardo tempo al quale risalgono le sue prime autodefinizionie tentativi di autoritratto e di poetica “ Non si può raggiungere per me una verace e bella creazione, se non si crea prima, distruggendo lo spazio, la libertà dove erigerla superba nel cielo”. E’ opportuno rilevare di questa sua prima tappa i saggi antifilosofici de Il crepuscolo dei filosofi costituiscono una sorte di faccia a faccia, o corpo a corpo, senza mediazioni di bibliografia secondaria, in cui il pensiero dei grandi filosofi della cultura moderna- Kant, Comte, Spencer, Nietzsche- è minimizzato con una prosa ferocemente antiaccademica, acremente demolitrice: in sé stessa un’opera maggiore nella produzione di Papini, una prosa ricca di sarcasmi, veemenze, metafore imprevedibili, audacia e irriverenza Sono brillanti se quenze di liquidazione incandescente, un requiem breve e esplosivo che non esita a ridicolizzare i fari più recenti del pensiero occidentale. Scritto per prendere congedo dalla filosofia si risolve in un processo alla filosofia, in un processo di presa d’assalto, come per esempio l’affermare che il segreto di Nietzsche e la sua apoteosi della violenza risiedessero nella sua debolezza, Sono, non c’è dubbio, confesssioni indirette, autoritratti dissimulati, auutobiografie implicite, frammentarie e incisive. Meritano una rilettura per l’arrogante supponenza della loro posizione, per il gesto, nello stesso tempo, impavido e irritato, con il quale l’autore si riappropria di una libertà critico-creativa senza remore, reverenze, cautele ipocrite, servilismi e perdite di tempo.
A questa stessa epoca appartiene il romanzo Un uomo finito, sorta di somma autobiografica, dichiarazione di capitolazione e di resistenza, sfogo cronachistico di un delirio di onnipotenza e di grandezza. Scritto mentre si trovava affondato in una tormenta intellettuale, in una prosa nello stesso tempo tempo misurata, calda ed esuberante, se seguiamo la convincente formula di Baldacci, sarebbe il documento di “un’angosciosa irresolutezza, simile al carattere regressivo alla relazione di appropriazione e fagocitazione tra il bambino e il mondo”. E’ uno degli apici della smisurata, apocalittica e vulcanica produzione di Papini. In questa occasione, l’autobiografia è esplicita, inclemente e consegnata alla più impudica esposizione di sé, il disiorientamento, la passione che non esplode, stagnazione e impotenza; furia “Non acccettavo essere un uomo se non aspettando di convertirmi in dio”. “In quanto conquisti la piena potenza ti disumanizzi, sobreumanizzi, ma divieni insensible, muori, non ti rimangono più stimoli, né volontà né direzione. Queste pagine ci mettono di fronte alla crudeltà dello scavo, la paradossale inacesssibilità dell’oggetto dell’analisi, l’autenticità delle pause intimiste, la marcia impetuosa della cadenza della prosa, che travolge nonostante la presenza di una disperazione per niente morbida. E’ un romanzo di autodenuncia, di resa dei conti con sé stesso, forse una requisitoria contro i propri mali.
Ho frugato dappertutto, ho mescolato tutto, e odorato il conoscibile, ho dato colpi di testa contro l’inconoscibile ma neppure una volta ho saputo approfondire nulla.
Qui confessa la sua “malattia di grandezza”- anche se sarebbe più pertinenente parlare di malattia dell’io-, così come il suo titanismo di inclinazione eroica che lo aveva portato a scuotere, trasformare, organizzare. In questa stessa tessitura di riassunto, bilancio e resa dei conti leggiamo:
“Il mio passaggio per la terrra doveva lasciare un solco più profondo di una rivoluzione o un cataclisma. Volevo, alla fine, che cominciasse con me una nuova epoca nella storia degli uomini”.
Papini adotta qui l’antico metodo della confesssione, da Sant Agostino al Secretum di Petrarca, e la più moderna introspezione di Rousseau. Forse il giudizio più adeguato lo dà il suo contemporaneo Serra, nonostante il lirismo melenso:
“….sempre sommario e superficiale, ambizioso nella confessione che è prima di tutto una tumultuosa descrizione di sé stesso, trova nonostante questo nell’orgoglio esasperato e nell’insolenza dello stesso cinismo amaro e di verità profonda; lacrime del passato cadono sul volto maligno e sembrano creare nell’animo, la solitudine di certe campagne penose, piertrificate, devastate sotto un cielo malevolente. Gli episodi acquisiscono una continuità dialettica e dal disordine nasce una nuova musica” (R. Serra, Le lettere, in Scritti, Firenze, 1958, p. 341)
Ma l’uomo finito non è solo un personaggio autobiografico, autoparodico, quanto anche la maschera distorta e anche spietata dell’intellettuale italiano che rappresenta in modo roboante la condizione letteraria sulla soglia della grande guerra, nell’atteggiamento iconoclasta, nell’annuncio dell’apocalisssi e nel desiderio di una tabula rasa, con echi leopardiani, che fanno presagire il conflitto in preparazione
“… non vedevo un’altra uscita. Suicidio individuale no, perché ridicolo e inutile; ma suicidio di massa, suicidio cosciente, deliberato da tutti, con il fine di lasciare sola la terra, girando inutilmente nei cieli…”
Sotto il segno dell’esaltazione del Negativo, del rifiuto provocatore, ma anche grotttesco surrealista, divagante e bizzarro, troviamo i racconti, per molti aspetti magistrali di Gog (1951), nei quali Papini con un gusto simile a quello del rumeno Noica- vuole rappresentare le malattie segrete, spirituali di cui risente la civiltà attuale, tra le quali mette in risalto la perdita dell’individualità (“…ogni uomo è un atomo, una ruota un numero, un gregario…”), con proclami misantropici di schifato rifiuto del gregge, esaltazione dell’eccentricità più stravagante e buffonesca, irritazioni davanti a coloro che si prostrano e inginocchiano, paradossi e contraddizioni spettacolari, appelli a un’immoralità diffusa, dichiarazioni insolenti di noia e accidia, passività, sintesi della storia umana (“Caos e tenebre sl principio e tenebre alla fine”). Delude che la condizione non sia all’altezza delle premesse, tributo consolatorio, in sordina, a un’ideologia francescana poco conseguente rispetto al nichilismo desacralizzante del volume.
Il miglior Papini è, non c’è dubbio, quello che rappresenta, triturato e angosciato, il suo proprio e l’universale caos del mondo.
L’immagine in evidenza è una foto di Giovanni Papini, presa da Wikipedia