Di chi sono il prossimo
Di Geraldine Meyer
Un libro, questo I sopravviventi di Girolamo Grammatico, che colpisce fin dal titolo. Perché, come ci ricorda l’autore, solitamente il verbo sopravvivere si declina al participio passato: sopravvissuti. Sopravvissuti a qualcosa che, in genere, pare superato. Ma sopravviventi suggerisce ed evoca una condizione senza fine, un sopravvivere tra una caduta e l’altra. Senza tregua. E senza tregua, infatti, sono le persone di cui ci viene raccontato qui. Gli ultimi, i mancanti sempre di qualcosa, i senza dimora, i senza lavoro, i senza residenza. Definiti da ciò a cui loro manca. Tutti coloro, uomini e donne, ospiti dei centri di accoglienza notturna.
Grammatico ci conduce tra voci di una umanità “senza chiavi”. Non avere le chiavi è una parabola del non avere un luogo sicuro, uno spazio di relazione. Che, al netto di tutto, è il nostro essere uomini e donne. Ma ci conduce anche in un arcipelago di riflessioni che coinvolgono il concetto di aiutare, di farsi prossimo e prossimi. Di sporcarsi con il più sacro dei luoghi, quell’umano vivente che si è incarnato e continua a incarnarsi là dove chi è povero diventa colpevole della sua povertà agli occhi di un mondo distratto e cinico.
I sopravviventi è la testimonianza di chi, perdendo la dimora ha perso tutto e, in luoghi come i centri di accoglienza, trova parziale rifugio ma al sintomo, non alla causa. Perché la causa interroga ciascuno. E non a caso questo libro è una continua e costante messa in discussione del narratore stesso. Cosa significa essere vivi? Ma, ancora più potentemente, non solo chiedersi “Chi è il mio prossimo” ma soprattutto “Di chi io sono il prossimo”. Perché ciò che emerge da queste pagine è il sottile confine che separa una vita “normale” dallo scivolare in una vita da sopravviventi. Ed è ciò che quasi sempre dimentichiamo, credendoci al sicuro nelle nostre dimore.
Sono voci e storie che colpiscono duro con la loro disperazione eppure con la loro incredibile umanità e vita. L’anziano calabrese solo al mondo, il siriano ex commerciante d’armi, il giovane senegalese dagli occhi iniettati di sangue. Uomini e donne che, quando il buio rosicchia gli ultimi scampoli di luce su Roma, premono ai cancelli del cento di accoglienza per trovare un poco di cibo, una doccia, un letto. Un riparo, in qualche modo, ma non una dimora.
Girolamo Grammatico, che ha avuto una lunga militanza in Azione Cattolica, imbastisce una trama in cui le domande sono in bilico tra fede e dubbio. Ma è innegabile che tra queste pagine, tra queste storie, non sia difficile sentire il vangelo di quel carpentiere palestinese che, in un certo senso e ad un certo punto, è stato lasciato senza dimora. Ma imbastisce anche un pugno in faccia a tutto il sistema del cosiddetto welfare che, abituati a considerare quasi materia solo burocratica, abbiamo escluso dall’orizzonte di una nostra responsabilità individuale. Che dovrebbe metterci in gioco ben prima di tutti i centri di accoglienza.
Non è un libro consolatorio. Non lo è nemmeno per chi spende la vita lavorando in questi centri e facendo davvero molto per questi sopravviventi. Non è consolatorio ma pone una domanda a cui forse vale la pena cercare una risposta: dove siamo? Dove siamo nel mondo e dove siamo in mezzo agli altri?
Unici
Saggistica, narrativa
Einaudi
2023
170 p., brossura