Essere pigri
Di Vladimir D’Amora
Prima va salvata, anzi, riscattata, la pigrizia. Che non è nulla di ambiguo, anzi, forse null’altro ci è dato di tanto perspicuo, anzi, abbagliante, quanto la pigrizia. E se pare ci venga data, come se un demone ci possedesse o un ambiente contenesse o una situazione ci costringesse, tuttavia si tratta di un dato alquanto strano: perché, se non è un mito, la pigrizia, ma piuttosto un che di ontologico, ecco che questa fondamentale naturalità è tanto inestirpabile proprio perché è reattiva: come se fossimo pigri solo e soltanto in una relazione, rispetto ad altri e altro; ma, insieme, come se con la nostra pigrizia, anzi, nel nostro essere pigri ci sottraessimo alla relazione stessa proprio lasciandola essere al suo destino… Laddove e quando siamo e saremo costretti, ecco che il pigro è colui che gioca. Che si prenda gioco delle costrizioni, costringendole nel giro delle loro inevitabilità: la pigrizia semplicemente lascia essere la costrizione tale e quale, la espone alla sua violenza: non è che la pigrizia si costringa o costringa altri, meramente, la costrizione, la insedia nella sua crescita, lasciandola al suo destino: la donna pigra è un cavaliere armato di vento, di scirocco: è un’avventura perché pigra è la situazione in cui ogni parola e ogni azione cadono come scimmie cadenti, insistendo nella loro presenza. Insorgenza luminosa. Lenta. Se la costrizione è una costruzione, un’idea effettiva, la pigrizia è gioco. La pigra deride ogni struttura, fosse finanche il giacere ai suoi piedi, sul pavimento ingombro, di rovine in attesa di giudizio… Appartenere a una classe, è comportarsi secondo un destino che sia violenza: che sprigioni tanta energia solo per esaurire la tua entro la sua propria… E ciò accade quando e laddove altri ci mostrino regole per i nostri desideri, regole che si sostituiscano ai nostri desideri, regole che siano in sé desiderabili! Essere pigri non ha nulla del disposto, ordinato, perché non ha fini, né fine è una pigrizia qualsivoglia, una tra tante che le somiglino meno casualmente. Pigrizia è noia, e la noia è un affare immenso. Ci si annoia raccogliendo interruzioni e cesure: miti cioè buoni per il tempo: e li si sospende a loro a volta: il modo in cui si possa dialogare annoiati, non ha nulla dei modi di coscienza e di soggettività, nulla della risposta a una violenza, della manifestazione indiretta, della chiusura ribelle: non si impara dal violentatore e dal fraudolento, non si impara a dotarsi degli strumenti, a sviarsi: le crisi né si evitano né si apparecchiano. E se non sono fatti, neppure accadono… Il valore della pigrizia? Come si può mai allegare una dignità all’ozio? Quale significato è mai un codice se non l’appartenenza mera, la naturale stasi? Il significato è un ordine, una tattica, una risposta: la fuga riflessiva nell’enigma solo sostenuto: esibito – l’enigma, infatti, non ha alcuna soluzione, il suo significato lavora autisticamente, in una autarchia bestiale, divina – violentissima. Il segreto della pigrizia è una lentezza imposta, quindi non è un segreto. È l’insuccesso del perdente, del baro. Ed è, il segreto della pigrizia, un trascinarsi sino a contrarsi nella rinuncia al lavoro? Non ha questo segreto, la pigrizia… E, se non c’è segreto, neppure filosofia della pigrizia. Essersi annoiati e avere rinunciato, sconfitti e soli: non c’è testimonianza peggiore di coloro che, da un’altra sponda, si limitino al medesimo spettacolo: violentata e violentatrice ritrovano sempre spontaneamente la loro metaforicità, l’attualità del loro contatto colluso col mondo, con la sua fine… Volere essere pigri? La pigrizia è; e in ciò è una solitudine in fine chiara.