La finzione come paradossale verità
Di Geraldine Meyer
Se dovessimo divertirci a cercare le parole chiave di questo Il buon uso della distanza, di Vito di Battista, probabilmente metteremmo in fila: dissimulare, debolezza, non abbastanza, finzione, mentire. Sì perché sono queste le parole che, non solo compaiono più volte tra le pagine, ma costituiscono una sorta di filo rosso della e nella storia. Metà anni ’70, Parigi. Protagonista e voce narrante Pierre Renard il quale, appena incassato un rifiuto per il suo secondo romanzo, riceve una lettera misteriosa come la sua mandante che si firma Madame. In questa lettera la donna gli propone, con la inesorabilità delle cose che sembra di poter non accettare quando si sa che non sarà così, uno strano accordo; dietro il pagamento di consistenze cifre Pierre dovrà scrivere sempre nuovi romanzi e sempre con pseudonimi diversi. Chi è questa donna e perché sembra volere essere eternata tra le pagine di libri in cui, in qualche modo, lei vuole riconoscersi?
Per Pierre inizierà da lì un percorso che, se da una parte lo condurrà ad essere protagonista della scena letteraria parigina e della parigina industria editoriale, dall’altra però lo costringerà ad una vita di finzioni in cui nulla, nemmeno il successo, gli apparterranno. Nemmeno i sentimenti. Una girandola tra incontri in cui di vero non c’è nulla, l’unica donna paradossalmente autentica sarà Colette, tenutaria di un bordello e tramite tra lui e Madame. Una prostituta, dunque una donna pagata per fingere il godimento (o per non averlo) proprio come Pierre sarà pagato per fingere di realizzare qualcosa. E qui le domande su cosa sia la verità in letteratura davvero abbondano. Come abbondano, inevitabilmente, le domande sulla distanza che, spesso, mettiamo tra noi e gli altri e tra noi e noi stessi. Proprio come un preservativo, quello che le prostitute chiedono ai loro clienti.
Un libro su più piani in cui, forse per non ferire la suscettibilità nostrana, la miseria del mondo editoriale viene trasferita a Parigi a fare da contorno a vicende personali e familiari che, dalla capitale francese partono e arrivano a Firenze. E anche questi due luoghi appaiono scelti non casualmente ma quasi a rappresentare due città accomunate sì dalla bellezza ma anche, a tratti, dal loro essere due signore che invecchiano.
Il buon uso della distanza, anche questa, parola fondamentale per comprendere appieno la non semplice struttura del libro, è il dipinto di un intreccio di vite in cui, a tutti, è mancato qualcosa. Forse il coraggio, forse la lealtà ma anche, e questo probabilmente è l’aspetto più amaro, l’ardire di chiedere, di essere sé stessi, di lasciarsi disturbare dalla vita vera. Per trovarsi in un labirinto di specchi in cui, ciascuno, in fondo, ha solo cercato di restare a galla.
Vito di Battista, ancora una volta dopo il bellissimo L’ultima diva dice addio, ci consegna un romanzo da cui traspare un lungo lavoro di cesello e una scrittura ricercata, elegante senza mai divenire barocca. Ci vuole grazia per accompagnare un personaggio come Pierre fino alla fine. Ammesso che di fine possa parlarsi e non di un altro inizio, anche se non sarà lui a iniziare. Scoperta la verità sulle sue origini, sull’identità della misteriosa Madame il suo uscire di scena ha il sapore di un ennesimo esordio ma questa volta nella verità.
universaleGallucci
Letteratura
Gallucci
2023
395 p.,