Una fiaba moderna dal cuore antico dell’Asia
Di Laura Vargiu
Che viaggio meraviglioso è la Letteratura, quella vera, quella più autentica!
Un viaggio infinito e affascinate dalle mete imprevedibili, nonché spesso impensabili. Ed è seguendo i suoi itinerari, dove si intrecciano sapientemente realtà e fantasia, che d’improvviso ci si può ritrovare anche a bordo di un treno che attraversa lo sconfinato silenzio della steppa kazaka.
È quel che accade grazie al breve romanzo dal titolo La fiaba nucleare dell’uomo bambino, la cui vicenda ha infatti inizio lungo la ferrovia in Asia centrale. Una piccola storia narrata con grande maestria da Hamid Ismailov, giornalista e scrittore uzbeko che vive e lavora in Gran Bretagna da più di trent’anni, dopo aver abbandonato il Paese d’origine dove le sue opere sono state messe al bando dal regime postsovietico.
Protagonista di queste pagine è un violinista di notevole talento che, appunto in Kazakistan, un anonimo viaggiatore incontra per caso nella carrozza di un treno. Eržan, questo il nome del musicista locale, a prima vista non è che un fanciullo in procinto di affacciarsi all’adolescenza; in realtà, si tratta di una persona sfuggita incredibilmente alle leggi del tempo, un uomo adulto intrappolato nel corpo di un eterno ragazzino che inizia a raccontare di sé al suo sbalordito interlocutore.
«Eržanera nato nella stazioncina di transito di Kara-Šagan, lungo la rete ferroviaria Kazakhstan Temir Žoly, nella famiglia di nonno Daulet, un guardalinee della ferrovia, uno di quelli che percuotevano con il loro martello il ferro delle rotaie e le ganasce dei freni durante le notti e che, di giorno, dopo aver ricevuto al telefono un comunicato di preavviso, deviavano gli scambi per fare attendere un vecchio treno merci stanco lungo il binario, finché un espresso o un treno passeggeri speciale […] non fossero sfrecciati via dalla stazioncina come un turbine.»
Un luogo remoto, dunque, lo ha visto nascere senza padre, mentre l’assai ristretta comunità racchiusa in due caselli ferroviari diventa un microcosmo in cui il bambino vive un’infanzia serena in compagnia dell’inseparabile quasi coetanea Ajsulu, malgrado l’opaca presenza di una madre caduta in uno strano mutismo. Un piccolo mondo popolato da meno di dieci abitanti, «se si escludono una cinquantina di pecore, cinque vacche, tre asini, due cammelli e il cavallo Ajgyr», i cui ritmi, oltre che dal rapido passaggio dei convogli, sono dettati dalla semplicità di tradizioni che spesso si mantengono in bilico tra razionalità e magia, mentre la fede islamica trapela appena da qualche accenno disseminato qua e là nel testo. La grande città e le sue accattivanti modernità restano lontane sullo sfondo, sebbene pure tra i due nuclei familiari della stazioncina (che, in verità, appaiono più come una sorta di unica famiglia allargata) a un certo punto faccia la sua comparsa un televisore.
La cornice spazio-temporale è quella offerta dall’Unione Sovietica dell’epoca della guerra fredda, quando la corsa all’atomica è più viva che mai e risulta d’obbligo mettersi al passo con gli americani, «e perfino sorpassarli, nel caso dovesse scoppiare una Terza guerra mondiale!», come sostiene convinto lo zio Šaken che lavora presso la misteriosa “Zona”, una vasta area recintata all’interno della quale vengono compiuti esperimenti che, con boati e tornado spaventosi, si fanno purtroppo ben sentire per chilometri.
È un’ombra minacciosa, quella del poligono nucleare, che si protende subdolamente verso la vita nella steppa, con conseguenze sulla salute umana non certo di poco conto che il giovane protagonista del romanzo finisce suo malgrado per subire. Infatti, a seguito di un bagno nelle acque proibite del Lago Morto, un bacino generato da un’esplosione atomica, il dodicenne Eržan, un vero prodigio della musica sin dalla più tenera età, smette di crescere; ad alcun esito positivo portano le pratiche dei santoni del posto o i vecchi rimedi popolari «per allungare le ossa» cui lo sottopongono il nonno Daulet e altri componenti della famiglia. Ma non andrà meglio nemmeno a chi, invece, a crescere continuerà in modo in apparenza normale poiché la presenza della Zona è ormai una condanna senz’appello.
Attraverso una prosa bellissima e toccante che dà prova di quanto Ismailov sia un autore – per citare il giudizio del britannico The Guardian – «dall’immensa forza poetica», quello racchiuso tra le pagine de La fiaba nucleare dell’uomo bambino è un racconto prezioso che si ammanta di un fascino unico e senza tempo. Una scrittura fin dall’incipit molto coinvolgente, che anima una trama in cui antiche storie finiscono per sconfinare nel mito e nelle leggende locali (e non solo), incastrandosi tuttavia alla perfezione in un presente contraddistinto dal pericolo atomico e, di conseguenza, dal futuro incerto.
Il lettore si ritrova così ad assistere al dramma di chi si vedrà infine negata, non dalla natura ma dall’uomo, la possibilità di una crescita fisica o, a seconda dei casi, addirittura di vivere, mentre non possono non farsi strada serie riflessioni sulla questione in generale, ben riassunte dall’interrogativo che il vecchio Daulet, dall’alto della propria saggezza intollerante verso la propaganda comunista, rivolge a Šaken: «Ma il tuo atomo che bene fa?»
Una narrazione sublime in cui il paesaggio mozzafiato della steppa con le sue distese di silenzio e di cielo a perdita d’occhio, la struggente malinconia delle note del violino di Eržan e persino i ritmi delle canzoni dello statunitense Dean Reed, finito a risiedere oltrecortina e morto nella DDR del 1986, si intrecciano alla paura opprimente, se non proprio al terrore, che esplode a ogni sinistro boato che percorre la terra. Una lettura destinata a lasciare orme profonde nell’anima, rammentandoci come la profanazione della natura metta a rischio la nostra stessa sopravvivenza. Uno scrittore tutto da scoprire, figlio del cuore antico dell’Asia che ha ancora molto da raccontare.
«Come descrivere la malinconia che può trasmettere la sera, nella steppa, su un treno che la attraversa solitario? O il flebile canto dell’aria che fa vibrare i fili d’erba?»
Uscito in lingua russa nel 2011, il romanzo è stato pubblicato in Italia un paio d’anni fa, con traduzione di Nadia Cicognini, dalla giovane casa editrice milanese Utopia all’interno della collana “Letteraria Straniera”. Il medesimo editore ha in corso di traduzione, sia dal russo che dall’uzbeko, altre opere di Ismailov che prossimamente arricchiranno un catalogo già interessante e meritevole di attenzione; per prenderne visione si rimanda al sito web https://utopiaeditore.com/
Narrativa
Utopia
2021
128 p., brossura