Vita liquida
Di Girolamo Francesco Peloso
La prima scena di una pellicola è fondamentale. Rappresenta il biglietto da visita con cui verrà presentata quell’opera, per cui il ruolo che essa ricopre è di primaria importanza. Come le prime righe di un romanzo: se ci catturano, allora siamo già dinanzi ad un buon libro. Lo sa Tolstoj che nella sua opera Anna Karenina ci ha donato una delle, o forse la più bella delle introduzioni.
Ben inteso: i primi frame di Roma, lungometraggio del 2018 scritto e diretto da Alfonso Cuaron (Y tu mama tambien, I figli degli uomini, Gravity) non saranno certamente al livello della scrittura dell’autore di Guerra e Pace, eppure racchiudono in pochi minuti alcuni degli elementi principali e ricorrenti della pellicola. Cleo, domestica di una famiglia borghese messicana, sta lavando il pavimento su cui è solito defecare il cane dell’apparente allegro quadretto familiare. Getta l’acqua, pulisce, compie lo stesso movimento più e più volte. Intanto, riflesso su quello specchio d’acqua, un aereo sorvola Città del Messico e Roma, vivace quartiere della capitale messicana.
Siamo già prossimi al capolavoro: in pochi minuti Cuaron ha già fatto intendere quale ruolo ricopriranno la dimensione aerea e quella marina. L’acqua -quella del mare, soprattutto- svolge una duplice funzione: da un lato, quella purificatrice, la più evidente poiché rimuove lo sporco, sia esso rappresentato nei bisogni di un cane o nella coscienza dei personaggi della pellicola; dall’altro lato funge da fattore coagulante poiché riunisce i frammenti di una famiglia che sin dall’inizio nascondeva dietro il velo dell’unione delle crepe che sembravano irreparabili. Poi, la dimensione aerea, quella che compare sempre sullo sfondo, eppure costantemente presente e che osserva gli avvenimenti nella capitale messicana. Quel veicolo che da una posizione privilegiata guarda dall’alto verso il basso la dimensione terrena, quella all’interno della quale si muovono Cleo, Sofia, Antonio e tutti gli altri cittadini. Dimensione terrena che diviene presto il terreno di un campo di battaglia. Perché in Messico, gli inizi degli anni ’70 del XX secolo, sono macchiati dal sangue. Il contesto è quello della Guerra Fredda, il sotto-contesto è quello della Guerra Sporca che il governo di Washington ha deciso di condurre in quelle zone che da sempre, tra le mura della Casa Bianca, sono considerate “il giardino di casa”: nel centro-sud America si inizia una vera e propria guerriglia contro qualsiasi spiraglio di rivendicazione politicamente e socialmente orientata a sinistra.
Succede, nelle opere ambientate in un preciso contesto storico, che prima o poi la Storia stessa decida di rivendicare per sé la posizione che più le spetta, ovvero quella di dominatrice del corso degli eventi. E quando in questi lavori letterari o cinematografici la Storia decide di irrompere, spesso lo fa come sole lei può fare: con estrema violenza.
E allora succede che Cleo, in quel momento intenta assieme alla nonna dei piccoli di cui si occupa a scegliere una culla per la figlia che porta in grembo, improvvisamente si scontri col reale. Di Roma, infatti, si è detto che sia una pellicola neorealista, simili a quelle che hanno avuto un notevole successo nell’Italia del secondo dopoguerra. E se di realismo si tratta, allora ecco che Cuaron ne mostra tutti gli aspetti, compresi quelli tragici. E Cleo assiste al massacro di migliaia di studenti scesi in piazza da parte di militanti di estrema destra. Alcuni di essi entrano anche in negozio, dando la caccia a un paio di ragazzi presenti tra la folla di manifestanti e rifugiatisi lì dentro. Tra i militanti di destra, intento a puntare la pistola contro Cleo per costringerla a non muoversi, vi è anche Fermin, uomo dedito alla arti marziali con cui la donna è uscita in un paio di occasioni e da cui è stata abbandonata dopo avergli rivelato di essere in dolce attesa all’interno di una sala cinematografica. In una seconda occasione, Cleo visita l’uomo mentre si sta addestrando nel bel mezzo di una terra desolata assieme ad altre truppe. Gli parla ma viene brutalmente respinta. Poi, il terzo incontro. Quello in cui Fermin punta una pistola addosso a Cleo.
È un punto di rottura totale. Non solo tra i due ex amanti, ma anche per la pellicola stessa. Quando i militanti di destra lasciano il negozio dopo aver assassinato gli studenti, a Cleo si rompono le acque. Corsa forsennata in ospedale, dove ad accogliere la donna incinta c’è un personale sanitario incredibilmente freddo e le cui poche attenzioni sembrano sempre essere coperte da un velo di finzione. La lunga, travagliata e dolorosa scena del parto ha un finale ancora più straziante: il bambino nasce già morto. Cleo torna a casa e un po’ per la famiglia un po’ per la donna che ha recentemente perso il bambino, Sofia organizza una vacanza coi bambini.
Sofia e Cleo. Le due donne che reggono l’intero nucleo familiare. La prima appartiene alla medio borghesia, laureata in biochimica ma che alla fine della pellicola annuncerà di aver trovato lavoro in editoria perché, in fin dei conti, lei, la passione per la letteratura l’ha sempre avuta. Sposata con Antonio, medico che mente e tradisce, che blatera di essere partito per il Quebec ma che viene scoperto a Città del Messico assieme ad un’altra donna da Cleo e il figlio maggiore. È madre che cresce, a fatica e senza un marito, due figli ed una figlia. La seconda, invece, appartiene non solo agli strati popolari, ma anche ad una minoranza etnica del Messico. È lei che gestisce la casa e che, da un certo momento in poi, affiancherà Sofia nella crescita dei pargoli. È, assieme e in certi momenti anche più di Sofia, il centro della famiglia, colei attorno alla quale tutto ruota e grazie alla quale tutto si regge, tutto si ricostruisce, anche quando il quadretto famigliare si frantuma a seguito della fuga del padre, anche quando lei stesse sembra essere ridotta a pezzi. Nonostante le differenze di classe, di educazione, di istruzione e di esperienze è la stessa Sofia a riconoscere il destino comune delle donne: essere abbandonate dai propri uomini. Lo dichiara proprio a Cleo, dopo essere rientrata a casa palesemente ubriaca: qualunque uomo sia, colto o meno, qualunque chiacchiera possa far fuoriuscire dalla propria bocca, prima o poi verranno lasciate sole. Nella loro sorte le due sono accomunate, per quanto evidenti siano le differenze tra Cleo e Sofia, per quanto, in certe occasioni, la seconda sembra approfittare della prima e della propria posizione sociale. Solidarietà, sorellanza tra donne nonostante tutto, nonostante ci si trovi in diversi punti della piramide sociale: è questo ciò che traspare dal rapporto tra Cleo e Sofia, personaggi che Cuaron ha saputo tratteggiare con grande maestria e con grande (ritorna ancora tale parola) realismo (purché, e ciò va riconosciuto, i suoi personaggi femminili sono pur sempre filtrati dall’occhio maschile, con tutti i limiti che ciò comporta. Del resto, lo insegna anche Ferrante: Tolstoj ha scritto il personaggio di Anna Karenina, eppure la protagonista del romanzo di uno dei maestri della letteratura russa presenta tutti i limiti dell’esser stata tratteggiata da una penna maschile).
Cuaron realizza una pellicola di rara bellezza, ma soprattutto realizza una pellicola che con una certa delicatezza racconta le vicende di una famiglia messicana, sempre in bilico tra l’unione e la rottura totale. È un film autobiografico quello di Cuaron, classe 1961 e che, di conseguenza, potrebbe essere sovrapposto al piccolo Paco, di nove anni, gli stessi che il regista aveva nel 1970, anno in cui è ambientato Roma. Paco è un cantastorie, un chiacchierone che cerca di attirare su di sé le attenzioni di Cleo con le bizzarre storielle che inventa. A giudicarle bene, però, Paco non sta dicendo nulla di falso o di sciocco: sta anticipando gli eventi. Come Cuaron che sa già cosa accadrà minuto dopo minuto nella sua pellicola, anche Paco, suo alter-ego, sembra, seppur inconsciamente, anticipare gli eventi: parla della sua presunta vita passata da aviatore, racconta del suo passato di marinaio che ha trovato la morte dopo essere affogato, proprio mentre i suoi fratelli stanno subendo la medesima sorte, per poi essere salvati da Cleo, gettatasi coraggiosamente in mare per riportare sulla riva i piccoli della famiglia. È come se Paco, con la sua parola, plasmasse o prevedesse la realtà, operazione simile a quella di Cuaron che, in aggiunta, la realtà la cattura e la imprime su pellicola. E lo fa anche con grande maestria. Il regista messicano, essendo Roma un film autobiografico, opta per un tipo di regia che suggerisce allo spettatore l’impressione di star osservando dei frammenti che, successivamente montati assieme, hanno dato vita a questa meravigliosa pellicola del regista messicano. Del resto, quello frammentato, è uno stile pressoché adatto per narrare le vicende autobiografiche vissute nella propria infanzia in un quartiere della capitale messicana.