Calvino, un pessimista ben temperato
di Federico Migliorati
Tra le foto che ritraggono Italo Calvino ve n’è una particolarmente iconica che bene si presta a riassumere e quasi a inverare la sua figura di intellettuale complesso, accorto, talvolta arcigno e a tratti ironico: lo si vede all’esterno del suo attico romano in Campo Marzio, a poca distanza dall’abitazione dell’amica Natalia Ginzburg, con in mano una sfera che ne proietta l’immagine all’incontrario, mentre osserva corrucciato con quella tipica espressione a ciglia inarcate divenuta una sorta di brand, di marchio di fabbrica. Lo scrittore “ligure di Sanremo”, come amava definirsi, era così: rigoroso nello stile, in una ricerca costante e compulsiva di novità, della perfezione, in una manifesta adesione alle ragioni più profonde del valore dell’etica e della scrittura, evidentemente riportate nelle Lezioni americane a cui attese quasi interamente nell’ultima estate della sua vita. Serietà, compattezza, decisione, ma anche capacità di mettersi sempre in discussione, nonostante tutto. Nel 2023 che ha segnato il centenario della nascita, a “chiudere” la serie di pubblicazioni a lui dedicate è apparsa per Einaudi Italo, un ottimo saggio biografico (ma non solo) congedato da Ernesto Ferrero, l’ultima sua opera prima della scomparsa.
Ferrero, amico di lunga data di Calvino, ha lavorato per molti anni nelle più importanti case editrici italiane a partire proprio dall’ammiraglia torinese diventando in seguito direttore del Salone del Libro di Torino: dell’autore ligure egli ha compulsato l’esistenza e le opere addivenendo a un testo denso certamente di richiami alla biografia, ma altresì alla molteplicità di rapporti di un’esistenza inesausta, mai doma, costantemente protesa alla ricerca di una perfezione. Ci viene restituito così l’humus più profondo che ha portato l’autore del Barone rampante a concepire la propria idea di letteratura, alle plurime costruzioni delle sue opere, da quelle neorealiste degli anni Quaranta alle realtà fiabesche del decennio successivo passando per gli sperimentalismi, l’esperienza dell’Oulipo e la “trilogia del congedo” per romanzi o romanzi aperti. Un percorso che entra ed esce da questo o quel periodo, questa o quella relazione intrapresa, questo o quel progetto a cui Calvino si era dedicato e con ciò recuperiamo alla conoscenza curiosità, aneddoti, amori dimenticati, tranche de vie, divagazioni personali per affondare meglio nella realtà dell’epoca e configurando un personaggio lontano da ogni superficialità o pressapochismo, nemico del dialetto, pedagogo senza volerlo, accanito difensore del bello scrivere. Lui che, del resto, sosteneva che scrivere è proprio “nascondere qualcosa affinché venga poi scoperto” operando in ciò una sorta di depistaggio del lettore, come si richiama nell’introduzione al libro in oggetto. La scrittura vista come argine, inizialmente, al “clan” familiare in cui era nato, figlio, nipote e fratello di scienziati, pecora nera della famiglia in quanto unico letterato. Una scelta decisa e convinta per Calvino, a forgiare una personalità che distaccatasi da tutto ciò in gioventù finirà per compiere una svolta a 180° in età adulta riprendendo quelle conoscenze tecniche, scientifiche, matematiche immettendole a spron battuto nei suoi romanzi e racconti. Come la sua Sanremo, città che non nomina pressoché mai ma che c’è, è presente, si respira, pulsa, rumoreggia, cresce, si amplia, emerge nella sua dimensione “verticale” (contrapposta all’orizzontale Torino). Ma c’è un Calvino pressoché sconosciuto, lo spavaldo e l’irruento, quello che cerca di apparire un latin lover senza averne fisico e carattere: nei suoi temerari “esperimenti” giovanili, attraverso cui formerà la personalità. emerge una figura che voleva colpire ad onta di una timidezza di fondo e di una balbuzie che lo rendeva poco adatto a macchine da presa o tv. Era il tempo in cui sosteneva che la sua generazione “non doveva più trovare differenza tra le cose pensate e le cose”. Così diverso, insomma, dal rigoroso intellettuale (parola invero che non gradì mai del tutto) che sapeva lanciarsi ogni volta una nuova sfida in primo luogo a sé stesso, afflitto dal leggendario mutismo che lo portava a trovare rifugio più nella parola scritta che in quella parlata, fautore di un pessimismo ben temperato. Niente pettegolezzi, niente scandali, niente notizie da rotocalco si rintracciano in “Italo”: Ferrero, che è stato tra gli uomini di cultura più cordiali, eruditi e discreti del nostro tempo, forse un poco somigliante allo stesso Calvino nella sua ferrea concreta e torinesità, fornisce un ritratto nobile e diretto, senza fronzoli, dove le tappe di una vita sono scandite con rintocchi puntuali, ineccepibili, frutto di un lavoro di scandaglio, di riscontro e di confronto con i molteplici testi in materia. Essere giornalisti è ben lungi dall’essere scrittori, leggiamo ancora: tra le due categorie vi è una separazione, uno iato poiché “i primi si limitano alla schiuma delle cose”, scrive Ferrero commentando l’amico che per un periodo di tempo, nel dopoguerra, alternò lavoro editoriale a collaborazioni a quotidiani. Un altro, tra i tanti, dei temi affrontati in un libro che pullula di rimandi, riprese, percorsi nella letteratura del tempo, amicizie e scambi epistolari, in un caleidoscopio di progetti continui, di sentimenti immediati (ma occhio ai sentimentalismi da cui Calvino, come il suo maestro e mentore Pavese, si terrà sempre alla larga in ambito letterario): un testo che vive di quella “leggerezza” che doveva essere una delle magnifiche proposte di un millennio mai iniziato e che resta tra le testimonianze più durature della sua lunga e prolifica esistenza.
Saggio
Einaudi
2023
232 p.,