Marcello Chinca ha svolto la professione di avvocato per venti anni sino al suo ritiro nel 2007. Svolge ora l'attività di critico letterario e d'arte. Scrittore

Elena

Di Marcello Chinca

Quell’escursione nel Gennargentu l’aveva voluta lui. Partirono dal paese di Tonara a mattino inoltrato. Cogli zaini sulle spalle, lui, Bice, Sandro, Valerio e Carlo che era la loro guida, gay conclamato oltre che supponente traduttore per National Geograpic, s’inanellarono in fila indiana nei boschi di faggi e castagni per ore. Giunsero sulla sommità del Perdas Crapias al tramonto, col vento che soffiava teso alle spalle. Lui disse che si sarebbe fermato più in basso, davanti la vallata, con la vista di Orgosolo alla sua sinistra, a destra ad Est lo scorcio remoto del mare. In realtà voleva godersi la Notte da solo, era stanco dei capricci di Bice, della supponenza di Carlo, dell’arrendevolezza sorniona su tutto di Sandro, del sarcasmo dilapidatore di Bruno. Disse per giustificarsi che più su non voleva pernottare. Che qui era perfetto. Loro dissero che era matto. Li vide sparire dietro la cresta. Più tardi avvertì le loro voci richiamarlo. Ma lui fu irremovibile nel restare.

Sistemò il sacco a pelo in un anfratto tra le rocce, mangiò pane secco e pecorino sardo, voleva addormentarsi ma l’atmosfera magnetica del luogo lo teneva desto, senza che se lo spiegasse.

Il vento sferzava, quando lui scorse il volto ingigantito di un lupo, il triangolo acuto del suo orecchio che s’ergeva e s’abbassava, la forma precisa del suo muso acuminato, pareva come lesto nel subodorarlo. Fu preso da un tremito d’orrore, quando si convinse di scorgerne gli occhi immobili fissi su di lui. Poco dopo razionalizzò, era certo un abbaglio, nel dubbio s’alzò, verificò col ramo che il lupo era una pianta matura di mirto.

Quello però fu solo l’inizio della sua avventura metapsichica. Senza provare nemmeno più ad addormentarsi rimase a contemplare il cielo sopra di lui. Stellato ma limpido e profondo come lui non l’aveva mai visto in vita, come se fisso con lo sguardo dentro quella trasparenza lui potesse raggiungere col suo terzo occhio le più remote Galassie.

Vi fu un istante che scoprì che tutto quanto stava mirando si muoveva, impercettibilmente si muoveva, sapeva dentro sé che era la terra che si muoveva. Scorse dapprima la costellazione, fotogramma dopo fotogramma la vide sfilare nitida per la prima volta nella sua vita. Vide quella dell’Ariete e quella dello Scorpione ore dopo.

La volta celeste pulsava coi suoi movimenti nel silenzio rotto soltanto dal vento crepitante tra cardi secchi e latifogli. Rimase a contemplare quella prova magnanima dell’Universo per tutta la notte. Col cuore che gli batteva dalla meraviglia ma anche dall’angoscia che uno prova davanti a tali vastità mai solo immaginate.

Era come un pittore supremo cui sia stato permesso disegnare con le dita l’interno di uno spazio tridimensionale la cui trasparenza ne faccia testimoniare di quelle dita ora in opera nella sua massa gelatinosa: miriadi di tracce dorate, di scie strabilianti, scintille qua e là, spirali in contorsione, liquide iridescenze in espansione, sbuffi lattiginosi, amalgama ed implosioni al Rallenti, tutto ciò in un incessante rilento svolgersi dell’intera volta, coi suoi diversi quadri da esposizione, ciascuno sotto il segno temporaneo dello Zodiaco impresso.

Che meraviglia, si disse commosso, grato verso un Dio che non conosceva, forse per lui inconoscibile, ma certo vivente in questo incanto, miracolo in atto di questo Mondo davanti a lui testimone, a lui sano di mente.

La Poesia, si disse, ha soltanto questa definizione incontrovertibile: questo scoprimento della verità toutcourt, straordinario immediato reso-conto alla Coscienza: che tutto quanto si regga abbia davvero Senso, abbia giustificata sempre la sua conformazione, la Natura dello scopo per cui fu creata.

Si confermò che tutto era come Spinoza aveva scritto nella sua Ethica. Un’Umanità come espressione parziale di questo Universo, ma anche espressione collegata al tutto. Nobile nella conoscenza, in questa tensione verso un Noumeno impossibile da concepire ma evidente. Lui però ne aveva la prova adesso, una prova a dir poco lampante, essenziale per lui come quella provata da Neil Armstrong disceso sulla Luna.

All’alba avvertì i campanacci delle capre tra i faggi mentre risalivano il versante, un pastore, facendo finta di non vederlo, giunse alla sua posizione. Insieme guardarono verso il Sole nascente. Quindi il pastore si voltò più volte per osservarlo.

‘Cosa ci fa qui, è solo, s’è perduto?’

Lui replicò che era assieme ad un gruppo di amici, ma che aveva preferito stare solo la Notte. Quello non disse altro, annuì soltanto. Con la mano lo salutò, ridiscese in basso.

Poco dopo i suoi amici erano di ritorno, arrabbiati o delusi da lui. Carlo si lamentò della carenza di viveri, visto che il pane era rimasto col fuggiasco. Lui si sentì un disertore.

Giunsero a San Giovanni in Sinis in serata.

C’era in programma una cena di pesce. Fu invitata anche una friulana, ricercatrice all’Università, coll’ovale del volto e gli zigomi alti tipicamente balcanici, gli occhi ispidi nocciola, fluenti capelli corvini a raggiera, un corpo atletico deliziosamente procace. Lui la conobbe quella sera stessa. Elena era il suo nome.

La mattina, da che erano sulla spiaggia rosa, lui la sollazzò al tramonto distesa tra le sue braccia a pelo dell’acqua cristallina, baciandola sulle sue labbra piene, ammaliandola con le parole, lo sguardo sopra i seni tondi deliziosi. 

Cenarono in un ristorante chic della zona. Finchè si diressero alla sua tenda per passarvi la notte.

Non si capirono all’inizio, c’erano state difficoltà col profilattico, ci provarono, ma era chiaro che nessuno avrebbe raggiunto l’estasi su quei presupposti.

Lei era ostinata però, non lo lasciò riposare, lui per condiscendenza le sottostava, pur dicendosi che era tutto inutile.

All’Alba esasperato la fece inginocchiare, la indusse a piegarsi col volto sopra il suo ventre.

Comprese d’un tratto che gli sarebbe riuscito fomentarle tutto l’ardore che serviva soltanto sculacciandola, sculacciandola a dovere mentre lei avrebbe continuato a succhiarlo.

Inizialmente la sculacciò ancora con cautela, giusto per saggiarne la reazione, quindi via via la sculacciò quasi con perfidia, conscio della recrudescenza inflitta sui suoi glutei oscillanti, al contempo commentandole all’orecchio quella sua magia, quella bramosia con cui lei accettava ogni suo gesto e parola, bramosia che solo poco prima entrambi avrebbero pronosticato come improbabile.

La sentiva eccitarsi eccome, la friulana era in estasi, vibrante e sussultoria coll’intero corpo ad ogni colpirla preciso, con le labbra a mungerlo così decisamente da asfissiarsi e tossire a tratti.

Lui se ne venne potente e copioso. Elena ingurgitò sotto il suo sguardo tutto con espressione indecifrabile, che a lui parve come alienata e nello stesso tempo soddisfatta di sè.

Lei lo fissò poi negli occhi, lo baciò repentina con l’intera lingua impastata, fuori di sé, fiera e sbigottita di quel Sé gigantesco che non sospettava appartenerle.

In silenzio fecero colazione al Bar sulla spiaggia. Lui intuì che alcuni pescatori, seduti alle sue spalle, la stavano guardando, sentiva sprazzi dei loro commenti che si scambiavano sottovoce ma con l’intento di farne indovinare l’oggetto. Avvertì indistinta l’espressione: ‘Si vede!’ cui seguì l’altra: ‘Non l’avete vista in tenda?’  Lui ne dedusse che dovevano averli spiati, almeno sentiti nei pressi della tenda. Forse le loro ombre.

Lei era arrossita ma senza prendersela. Pareva giocare con quel suo ruolo inedito quando lo baciò, proferendogli le labbra già dischiuse, la lingua appena umida in mostra. I pescatori smisero di confabulare. Ora era lei a sfidarli,  sviando così ogni intenzione di lui di reagire all’oltraggio delle loro parole.

Ad un tratto lei gli afferrò la mano. S’alzarono. Al lato del tavolaccio dove sedevano i pescatori, lui si fermò, guardò in volto il più sornione, profferendo a denti stretti: ‘Ma non ce l’avete una donna?’

Non aspettò la loro reazione, proseguì con lei a fianco che gli si stringeva coi fianchi, era sicuro che gli sarebbe piombata sul capo una bottiglia, invece li sentì ancora ridere rumorosamente. Si girò, ma quelli fecero finta di non vederlo.

Fecero una passeggiata sino ai ruderi del Porto Romano. In silenzio lei indugiava coi piedi nudi da uno scoglio all’altro, consapevole dell’uomo dietro, dello sguardo rivolto alle sue gambe, ai segni violacei sotto la linea del costume. Lui sapeva che ne era conquistata da lui, da quel gesto tra loro nella tenda, ma anche dal suo comportamento dopo, ora da quella sua apparente estraneità imparziale con cui forse ora la stava rifuggendo.

Lui sapeva che lei era come un pesce dentro la sua rete. Ignorava però se gli si addicesse questa femmina dei monti, selvaggia di gelosia, presagiva in lei qualcosa che lo contrariava addirittura, quel suo essere così loquace, compita e forbita, iper-apprensiva, perfezionista, lo sapeva: tutto ciò avrebbe finito per stancarlo. Ne vedeva chiaramente l’epilogo, anche lei lo intuiva ma quasi con una mestizia mista all’inalterata fascinazione, attratta da lui e dalla propria condizione umiliata da lui, calamitata a questo destino infelice pur di amare, condividere con lui tutto nonostante tutto, accanto a quella sua volontà che lei vedeva di ferro ed irriducibile.

Era questo il Tragico tra loro, già manifesto e così inquietamente reagente: quel segno così preminente di quasi tutte le relazioni, la sapienza con cui si sa che questa unione non funzionerà mai. Che non c’era alcun futuro tra loro. Che la solitudine si sarebbe sine die procrastinata.

In copertina Notte stellata, di Vincent van Gogh.