La grazia sconosciuta di Jean Vigo: libro-inchiesta di Giovanni Cocco
Di Rossella Pretto
Non avevo nulla da aggiungere all’idolatria postuma. Non mi sarei mai sognato di aggiungere un solo elemento capace di portare acqua al mulino del «santino» creato a proposito di Jean Vigo.
Giovanni Cocco, Una grazia sconosciuta, Editoriale Scientifica (S-Confini) 2024, pp. 206
Dichiarazione chiara, perentoria. Non è un’agiografia, questa di Giovanni Cocco, né l’ennesima interpretazione della parabola artistica di un autore «VIVO», dice lui, dal momento che le sue opere sono ancora e sempre fruibili e dunque non hanno bisogno di essere accompagnate o tradotte.
Il campo di indagine è delimitato e prevede la visita ai luoghi del regista francese Jean Vigo.
Il metodo, poi, è rigoroso. Lo scrittore non intende indulgere al memoir né al romanzo storico: il suo è un occhio analitico che percorre la strada del documentario con molto materiale eterogeneo che andrà composto e ordinato, secondo una pratica che al cinema si chiama montaggio. Collaboratore strettissimo di Vigo, non a caso, è il sovietico Boris Kaufman, fratello di quel Dziga Vertov radicalmente estraneo al cinema di finzione e fondatore degli esperimenti del Kinoglaz (Cineocchio) nonché uno dei massimi teorici del montaggio.
La motivazione dell’autore (che ognuno potrà andarsi a leggere) è più che sufficiente – garantisce cioè l’urgenza della scrittura – a giustificare il viaggio e l’interrogazione del mondo. Di quella porzione specifica di mondo.
Siamo subito a Nizza, qualche giorno prima dell’attentato sulla Promenade Des Anglais, è il 2016. Uno sguardo filmico à la Vigo (praticamente il cortometraggio À propos de Nice che fornisce il modello per gli altri capitoli) apre il libro, che si mette poi a vagabondare, con qualche tratto fin da subito riconducibile all’inchiesta.
Va tra picchi montani (il sanatorio alpino di Davos), dove Cocco si inerpica con la compagna Costanza – un ricordo della gita effettuata quando ancora erano «giovani, liberi, fiduciosi e, soprattutto, privi di legami imposti, ufficiali. Una coppia felice, come tutti, almeno finché si è in due».
Approda di nuovo a Nizza, al quartiere Fabron, nella villa che vide sposi Jean e Lydou (la giovane moglie incontrata al sanatorio di Font-Romeau dove erano ricoverati per tubercolosi).
La scrittura procede serrata e non concede tregua, se non per qualche digressione o ragionamento, che però non alterano l’attenzione di chi legge: desta, sempre, sia durante le ricerche sulla vita e sugli anni in ombra del regista sia nella corsa dei giorni di ripresa di Zéro de conduite, agli studi Gaumont, che si leggono col fiato sospeso. E ancora è desta quando si inseguono gli ideali, la poetica rivoluzionaria e personalissima di Vigo, il suo impegno nei confronti dell’infanzia tradita e vessata tramite cui il regista può concedersi sfondamenti onirici e poetici o l’impegno a cui chiama la visione de L’Atalante (suo quarto e ultimo lavoro, e primo lungometraggio): «L’entusiasmo prima della disillusione, la frattura tra giovinezza e maturità, l’età dei sogni contrapposta a quella dei compromessi, tutte cose già viste e sentite, ma che adesso riuscivo a inquadrare in maniera diversa», scrive l’autore.
Se non fossero poi i suoi precedenti polizieschi a dire qualcosa di Giovanni Cocco (di una certa sua abilità), l’avvio del libro sarebbe comunque abbastanza per comprendere che il meccanismo dello svelamento è centrale nella costruzione dell’indagine. Lo scrittore, incline a soddisfare un’ossessione maturata in gioventù, dovrà scoprire e riavvolgere la tela – o la pellicola – di un avvenimento fin troppo personale, in un continuo rimpallarsi delle vicende dell’uno e dell’altro: Jean Vigo e Giovanni Cocco.
«Il silenzio imbarazzato che seguì confermò quello che da tempo andavo pensando e cioè che quando parlavo di Vigo, in realtà, parlavo di me, e che persino la mia compagna si fosse fatta l’idea che io mi stessi immergendo in quella storia proprio per gli aspetti che la vicenda di Vigo aveva in comune con la mia esperienza personale».
Un libro-congegno che non perde colpi, forse giusto un filo di luce di troppo sul finale, scritto con uno stile asciutto e severo, incisivo. Quattro capitoli, quattro tappe filmiche (le opere di Vigo) che mettono in comunicazione le esistenze del regista e dello scrittore, febbricitanti entrambi per il lavoro da completare, ma depurati da qualsiasi scoria emotiva, tesi nello sforzo compositivo e ostinati. Cocco affina il suo bisturi e incide. L’indagine è forte e la mano non gli trema. In fin dei conti, ha fatto sua la frase usata per Vigo e il suo L’Atalante: «Non era la storia a risultare interessante, ma il modo in cui era stata raccontata».
In questo caso, però, interessano entrambi.
S-confini
Saggistica
Editoriale Scientifica
2024
206 p., brossura