Al soldo di nessuno
Di Marcello Chinca
Le Isole Mauritius furono l’ultimo avamposto in cui io e mio padre trascorremmo assieme delle vacanze, il viaggio di andata spettacolare, con me col naso attaccato all’oblò in pratica giorno e notte e persino seduto per quarti d’ora interi al centro dentro la cabina di pilotaggio, dapprima l’estensione infinita del Sahara, quel deserto cui ne seguiva le diurne ondulazioni delle dune, cui ne coglieva la rifrangenza dorata nella notte di luna crescente, in pieno mattino la mole inaspettata ed incombente del Kilimangiaro col suo cerchio di nuvole sulla cima, l’aeroporto di Nairobi, in cui facemmo scalo tecnico, avvolto dall’afrore acuto di combustibile ed olio bruciato e da spirali d’esalazioni di una calura attorno i 50 gradi Fahrenheit celsius sulla pista assolata, l’Africa impossibile sorvolata sopra interi quartieri attinti alla Capitale composti di tende e baracche, gente anonima come attonita ferma sulle strade, bande forse armate ai crocevia, una volante della Polizia a sirene spiegate, per proseguire la cabrata con l’inizio della Savana scorticata ed infame, colle sue orde di bufali in marcia in colonne da due, i suoi elefanti maschi solitari ed enormi anche da quassù, infine le coste del Mozambico verdeggianti. Per aprirsi sull’abbaglio accecante e improvviso del Mare, le isole dell’Indiano, il mare di un livido verde acquamarina, le scie delle onde al largo sopra le secche, le barriere coralline più bluastre costellate di ombre, popoli di specie in lotta per vivere, miriadi di pinne e tentacoli. Atterrammo, prendemmo possesso della nostra camera affacciata su un giardino di magnolie, alberi del pane e tamarindi e banani, al secondo piano del Resort du Morne.
Conoscere il proprio padre nelle rare occasioni in cui lo vediamo giorno e notte nel proprio ambiente, tra i suoi colleghi o magari amici di vecchia data del Sindacato, lascia sempre un po’ basiti sul chi è davvero il nostro genitore. A parte il fatto che nella categoria era per lo più conosciuto ed amato devo dire per la sua intensa passata attività nel Sindacato anche in posizioni di vertice, a parte la simpatia subitanea che ispirava in quasi tutti, la brillantezza di una centralità delle argomentazioni di cogliere il nodo della questione che tutti gli riconoscevano, mio padre ha sempre mostrato una viva curiosità del prossimo di cui sapeva cogliere anche le sfumature più segrete. Questa sua facoltà avrebbe favorito allora il senso del suo essere collettivo che vive e parla tra la gente. In questo era un Genio, la capacità di far gruppo e di entrarne a far parte con la naturalezza di un nuovo membro ma parigrado.
Questo primato poteva suscitargli anche posizioni di pura tracotanza specie con chi non gli aggradava. Durante un pranzo quasi al sacco con altri colleghi presenti Mario prese a canzonare un tecnico di volo già destrorso in la cogli anni che effettivamente stava un po’ calcando la scena con questioni di nessuna rilevanza, lamentele sul personale indigeno ecc. Mio padre lo mise in mezzo tra i lazzi degli altri mentre il malcapitato si torceva di un’indignato imbarazzo. Finché esplose, livido in volto, contrattaccando. Mio padre ovviamente non mollò la presa né chiese scusa, ma durante la notte lo sentì torcersi sul letto dal rimorso, ansimare per l’asma e inalarsi più volte il cortisonico. Poveretto pensai, la cosa in fondo lo ha distrutto.
Quei dieci giorni furono unicamente il dominio del mare e dei suoi derivati. Lui stava tutto il mattino ad esplorare la costa col windself finendo a volte per perdersi tra le mangrovie e le paludi, ancora insicuro col mezzo in carenza di vento.
Finché una volta, col vento che gli sibilava dietro le orecchie, rischiò di non tornare indietro, dovette ripiegare la vela, abbattere l’albero, stendersi col corpo sopra a tutto questo e a forza di bracciate cercare di approdare, ma il vento, il mare mosso, le correnti impetuose impedivano tutto questo, se non fossi stato soccorso da una lancia di sicurezza allertata da mio padre avrei certamente abbandonato tavola e resto al naufragio delle res relicta, perché il fatto fu che mi rifiutai di issarmi sul gommone, gridai che avrei provato a nuoto. Quelli dissero che era pericoloso. Io replicai, c’è la faccio. I get it. In effetti alla fine approdai esausto, schiantato dalla fatica. Ma almeno attenuai nel pubblico l’onta del mio recupero.
Spesso si andava a raccogliere ostriche alla barriera, avevamo una lancia in Vtr con un’apertura sulla plancia per vederne il fondo, ti immergevi per due massimo tre metri e con una spranga con l’estremità piatta acuminata dovevi svellere i gusci delle ostriche direttamente dalla roccia, quando ne avevi accumulate una decina le depositavi nelle mani del pilota indigeno che provvedeva a servirle attorniate da fette di lime su foglie di banano e vino bianco gelato. Una delizia devo dire. Un mattino misi quasi il piede su un pesce pietra, l’indigeno disse di non muovere un passo, finché non lo scorsi nella trasparenza dell’acqua scrollarsi dalla sabbia e defilarsi lontano da me, bolso, enfio, enorme, con grandi spine caudali e propaggini, baffi circospetti azzurri-grigi, mi salvai per un pelo.
Non fu una vacanza in cui ci confidammo molto io e Mario, mio padre già alle prese coi suoi reni, io perplesso, anodino, silenzioso, sì ogni tanto si discettava di politica a tavola o al Buffett, ma stranamente direi che eravamo come estranei, tendenza già rilevatasi a Rio dove io sparii del tutto ai suoi occhi. Sembrava che tra me e lui si fosse chiusa un’Era,
All’Hotel generalmente a cena una hostess già nella mezza età mi aveva messo gli occhi addosso, non era malvagia coi suoi abitini striminziti sopra la coscia, il caschetto biondo sul volto procace e labbra rifatte. Ma la cosa non ebbe seguito e una sera che ci stavamo accordando sul numero della sua camera mi voltai e mi nascosi per l’intera notte in qualche recesso della piaggia, a riflettere come spiegarle la ritirata. Non ce ne fu bisogno, la vidi il giorno dopo abbracciata sul lettino con un altro, uno indigeno, persino più giovane di me.
C’era stato un tempo, avrà avuto dai tredici ai sedici anni, che suo padre lo portava con sé a tutti i convegni, assemblee, congressi intrapresi dal Sindacato o dai suoi consociati CGIL o UIL,
Parlo degli anni operaisti, degli anni in cui si proponeva il contratto unico per tutti i lavoratori, gli anni di maggiore espansione della sinistra dei diritti sociali ma anche individuali come le lotte per il divorzio e l’aborto. Ascoltarli nei loro interventi era sempre un’apprendere l’arte oratoria che aveva dell’unicum.
Tra questi su tutti svettavano due personaggi mitici nel sindacato intero, Sandro Marinacci di area socialista e Marco Barzocchi cattolico assimilabile alla Sinistra della DC. Alla fine ad ogni congresso cui assistei era sempre una lotta intestina tra questi due e con le correnti che li sostenevano, oltre alla terza componente minoritaria comunista rappresentata da Mario, Lidya, Carmine, Benito e scarsi adepti.
Quella fu la mia più importante lezione di politica, uno capiva che politica non è soltanto ciò che proclama ma prestigio, alleanze, capovolgimenti strategici, ritirate, dispute che tracimano in questioni personali, umiliati e offesi, vittime da esecrare, nuovi padrini da sopra che intervengono latori di pace, nuovi padroni che chiamano compromesso che in realtà cambia la carte in tavola, intrighi dell’opposizione Social-comunista, purghe al comitato direttivo, poi tutti alla cena finale, tutti amici o quasi, rimangono gli offesi, sguardi di malfidati, pochi malcelati, emarginati.
Un periodo che non esito a definire però ancora sobrio, solidale, per cui ancora il termine collettivo avesse senso, un mondo che era invece destinato a sparire e con la loro generazione si defilarono le schiere della resistenza morale contro le storture di un Paese che non avrebbero più cambiato.
In copertina un’immagine dell’autore e di Mario