Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Andrea Caterini – Farsi da sparring partner

Di Rossella Pretto

Un bosco, una piscina.

La camera fissa inquadra la scena.

Qualcosa si muove nel folto, là in fondo, tra le foglie.

Vestito, un uomo si affaccia posizionandosi sul bordo dell’acqua.

Ne guardi il riflesso sconcertata dalle lunghe gambe doppie che si uniscono dai piedi.

Poi il salto e lo stop.

C’è un uomo raggomitolato per aria, nessun riflesso. Un tuffatore che, sotto di sé, di sé non lascia traccia. Il volo di Paestum. Alluso trapasso.

Non solo.

Perché ora lo specchio d’acqua si anima. Le cose si fanno e chiedono senso: autonomia e nuovo senso demandato all’alterità del doppio, al rovescio, la fodera della pelle, il ribaltamento del pensiero che pensa e si sperde.

L’uomo scompare evaporando nel verde.

Il tempo passa, nelle due dimensioni di terra e acqua, diverso: l’una è immobile, l’altra animata. Là dentro succedono cose, passano figure. Movimenti piccoli, essenziali.

Poi tutto si abbuia e l’uomo riaffiora da quel teatro amniotico d’ombra.

È nudo, esce dalla piscina e se ne va, appare/scompare nel folto, là in fondo, tra le foglie.

Chi esce non è chi era entrato, si dirà, a dirsi così semplice.

Epperò.

«Coloro cui più mi sono affezionato, mai li ho visti altrimenti che come attraverso un fondo di bicchiere, oscuramente» – scriveva Van Gogh nella penultima lettera alla madre. L’immagine sopravanza dal fondo, si fa dall’indistinto e, una volta vista, rimane deformata deformando il concetto di sé negli altri.

Sì è sparato – Van Gogh -, mentre Bill Viola se l’è preso l’Alzheimer. Viola che con le sue pause e gli spaesamenti ha apparecchiato la vertigine che rompe il respiro, mettendo di fronte l’uomo all’uomo, mostrando l’aperto vaso dell’inconoscibile che più non ci è dato richiudere. Straniero, dislocato, essere da sogno, nel sogno vivente, nella fallacia di ogni cosa pur minima che tenti di testimoniare una verità salda – così l’uomo di oggi. Viola ha concepito The reflecting pool nel 1977, che è un tempo quasi preistorico per la velocità dell’oggi.

E tu pensi che Sparring partner di Andrea Caterini (Editoriale scientifica 2024, pp. 115, euro 10) si radichi in quella piscina riflettente, quello schermo, tu che per dire la straniera in te ti pensi nell’altra di quella seconda persona singolare con cui ti parli (e tutto sta nel tuo parlarti), tu oltrepassata di un balzo dall’uso che Caterini fa non solo del tu ma anche della prima persona singolare, combinandole in un volo infinito che si avvita su sé stesso con un effetto straordinario di smarrimento, che però suona, suona come la testa d’Orfeo – o come una preghiera: quella stessa svoltolata dallo scrittore in La preghiera della letteratura del 2016, usata come tentativo di imparare a parlare per la seconda volta, dopo la prima in cui si nominano le cose, riconciliando il corpo alla voce e facendone veicolo di senso che ricordi l’origine.

Lì, Caterini parlava della cacciata dall’Eden, dell’impossibile aderenza a sé postulata dall’avvenuta conoscenza del bene e del male, quella colpa, che il bene e il male hanno divaricato senza possibilità di conciliazione, ma con molte chance di sofferenza, immancabili. E dunque, per tornare alla pienezza serve una sollecitazione che faccia da promemoria (lacerante, anche solo un poco), il sempre nuovo bagno cerimoniale che mimi l’origine, che eradichi la distanza e riapra gli occhi a un paradiso inseparato. Serve il ritorno attraverso il rito che faccia scorgere la con-sangui-neità di ciò che differendo si apparenta – il corpo di Cristo. Usandola, quella differenza, come scarto conoscitivo, certo. Come scacco ed epifania.

Perché esistono momenti in cui si dà il vuoto, in cui non ci si conosce e riconosce, ogni cosa perde i suoi contorni e rimane interrogante.

È così che comincia Sparring partner, nella sospensione in cui l’uomo abbandona il suo riflesso nell’acqua e si annulla, nulla essendo, lui, anche nel corpo inerte. O soprattutto in quello. Un torpore dell’Essere che rifiuta la penetrazione o l’osmosi della conoscenza. È necessario riandare alla preghiera per uscire da quell’inerzia, tornare al doppio, a vedersi e pensarsi così, allo specchio, o come uno sparring partner, si deve tendere alla completezza rotonda.

«… il senso non eri tu – scrive Caterini nel primo, lungo, ipnotico paragrafo, breathless – perché non esisteva un tu che non ti facesse sentire ridicolo, svuotato come eri, o inutile a te stesso e neppure sapere di avere, o avere avuto, una coscienza aiutava, […] il mondo che aveva assorbito la tua intelligenza eri stato tu stesso a generarlo, a concepirlo, tu il manipolatore di te stesso, tu estraneo e presente al contempo, tu il nemico che oggi aggredivi, rifiutavi, finalmente vedevi, e lo smarrimento riempiva quel vuoto, l’argomento che cercavi ma non sapevi dove, in quale direzione, dentro quale seduzione speravi di continuare a vivere, ora che l’intelligenza era divenuta un moto, agiva a tua insaputa, era una lingua che solo il corpo governava, anzi il corpo era la sua sintassi, la sua modulazione, il suo andamento, la sua ignota poesia».

Dove l’attrito viene generato non solo dal conflitto interiore, ma dallo stato in luogo – dice lo scrittore, che pone il problema della coabitazione tra l’ingombro che fa da impalcatura al pensiero – il corpo – e l’ambiente: due estranei o due manifestazioni dell’uno esperite tramite la dicotomia operata dalla cacciata dall’Eden nel momento in cui l’uomo non può più riconoscersi nel suo “paradiso”. E così fa esperienza della difformità e dell’assenza al compimento. Della disappartenenza.

Corpo/peso-veicolo di santità. Corpo rigettato, battuto, stuprato. Sacro corpo che chiede male. All’origine fu questo, ricordi Apocalypto? C’è una violenza, per noi intollerabile, nell’uomo che incontra l’uomo. Sempre straniero. Sangue d’agnello che mostra i cieli. O li oscura. Sacrificio.

E dunque Caterini, smarrito, torna al quartiere natale – e sul ring – per riaccadere laddove tutto è cominciato, per imparare nuovamente a parlare la lingua intricata e implicata nel corpo-sintassi-d’intelligenza, sua poesia (ma ignota) – il nucleo di questo libro straordinario che riflette su letteratura e boxe usandosi come testimonianza dell’accadere o meglio facendo del proprio evento una forma di testimonianza (e Caterini non manca mai di sorprenderti, pur sapendo, tu, che la sua è una intelligenza sorella – non perché ti voglia neanche lontanamente avvicinare a lui, ma perché senti che quella scrittura pensante suona, suona tra le deficienze della tua di voce, dandole la possibilità del riconoscimento, o forse, e meglio, della trasparenza a sé tramite l’aderenza all’altro che crea comunità).

Questo per riferire – oscuramente, forse – alcuni pensieri ispirati soltanto dalle primissime parole dello scrittore romano, in quel suo preludio al rientro nel quartiere in cui è cresciuto e da cui si è staccato per divenire più pienamente sé differenziandosi nell’intellettuale rigoroso, aspro, ostinato che proprio dalla borgata trae fondamento, e linfa – e lì dunque deve tornare per riattingere acqua lustrale perché lo spazio, quello spazio individuato, dia modo al tempo di aprirsi.

C’è quindi un attraversamento (e uno stop necessario a passare da un elemento all’altro) per riappropriarsi del bisogno di indossare ancora i guantoni e le fasce e confrontarsi con il quadrato del ring, come fosse il sacro altare del teatro dove il mondo avviene, assoluto, si dà ed è corpo su cui ci si accanisce – il corpo dell’attore, il corpo di Cristo – perché parli, articoli ancora la sua sintassi, la sua poesia, la sua sacralità in un atto totale (come l’attore di Grotowski che compie atti paradossali ed estremi, Ryszard Cieslak, tramite la sincerità). Quel corpo, però, non è solo quello personale, ma quello di una società intera – dice Caterini – quello che restituisce senso a uno spazio (appartenenza, identità, sacralità), un corpo che si esperisce tramite il dolore e lo ritualizza per partecipare ancora al mistero del mondo. E il ring, allora, diventa emblema del superamento della coscienza che offusca l’espressione immediata mettendo a rischio la sopravvivenza (se pensi troppo l’avversario ti annienta), prova d’umiltà e stile («ogni campione che ti era capitato di conoscere, fosse sul ring o sulle pagine di un libro, era il grado di profondità con cui accettava di rispondere alla ferocia della vita che ne decretava lo stile»). E stile, in Caterini, è anche allontanamento da una poetica che miri alla purezza mitica di un mondo arcaico, un mondo perduto, per riaccendere la rabbia originaria senza estetizzarla, disinnescandola. Facendone danza dei pugni, estenuando il corpo perché potenzi la traspirazione di una lingua, mettendola e mettendosi a nudo: «era scoprendosi, e accettando di essere colpiti, che la realtà portava dentro il suo mistero, e tu non credevi ci fosse realtà che potesse essere percepita, sentita, vissuta senza una forma di dolore e umiliazione, e quindi non c’era tecnica o mestiere che fossero capaci di esprimerla, la realtà della vita, senza mostrare di sé una paura di vivere».

E continua:

«Sentivi invece che la scrittura era un fatto tanto vicino al fondo della vita, così profondamente radicato alla tua solitudine, al tuo dolore, da accettare il rischio anche di perderla la parola, per evitarne l’uso impiegatizio, e non scrivere mai più».

Ed è qui che appare Maia, la selvatica, l’enigma dei boschi, colei che incorpora la disappartenenza a e di una regione, il Carso, colei che, nel combattimento, smonta la convenzione del tempo mostrando vitreo l’occhio suo e dell’estraneo che specchia. Maia è un ottimo modo, un modo viscerale, comunque organico e riuscitissimo, di dire qualcosa del proprio straniero, per dire di quella lotta furibonda del comprendersi e del farlo attraverso la minaccia della morte, quella che chiama pure una passione impraticabile, frustrante, ostinata (e un abbandono).

Caterini si mostra nella sottrazione e quanto più si evidenzia più si eclissa. Usando la prima, la seconda e la terza persona singolare. Magistralmente.

Sparring partner Book Cover Sparring partner
S-confini
Andrea Caterini
Letteratura
Editoriale Scientifica
2024
115 p., brossura