Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Generazione Sessanta

Di Rossella Pretto

Ti è capitata altre volte, questa sindrome di qualcosa, ti è capitato di sentirti invadere dalla vita altrui. Epperò questa volta è stato il segreto della vita a esplodere inconcepibile in un grido, la vita infusa, la vita presa, la carne come veicolo di trascendenza, unica possibile salvezza nel delirio della macchina che ci surclasserà.

Ma senza corpo come potrà farlo? Senza quel corpo di marmo che ti impazza nella testa per insegnarti – senza che tu possa capirne un’acca – il mistero del rinascere, della resurrezione (dalla carne che vive nel marmo più splendida e vibrante che mai)?

Te l’ha detto anche Davide Rondoni poco lontano dal Nettuno di Bologna, un’altra statua, un altro corpo (ma poderoso, stavolta), te l’ha detto appena pochi passi più in là – e sei d’accordo: è il corpo che possiede l’intelligenza più raffinata, quella che sfuggirà alla pena capitale – buffo a dirsi.

Forse era proprio questo il messaggio del Cristo velato della Cappella Sansevero, lo scandalo del corpo morto che sfolgora, eccessivo, sbordando nel miracolo di un risveglio, della vita tangibile che ti affoga i sensi, sconfinata.

Come intenderlo, allora, come praticarlo, quel risveglio?

Coltivando l’alterità, potresti dire seguendo i fili tesi da François Jullien, ingannando la presenza che per sua natura si fa opaca (un difetto dell’Essere, dice, non una falla dell’umano – e che sollievo!), e diventa saturazione della presenza – necessaria, quest’ultima, perché le due sponde di spazio e tempo si possano toccare smettendo di essere scissione lacerante.

Essendo il duale per eccellenza in cui le due categorie di spazio e tempo si esaltano e collassando si liquefano nell’inconcepibile della fede, Cristo esalta quella stessa presenza (ora nel tuo spossessamento di spettatrice invasa) che diviene trascendenza dell’uomo, umano troppo umano, frastorno della mente che recalcitra – ma che deve guardare e non può tirarsi indietro.

E dunque sia la presenza, la concretezza immediata, esserci per comprendersi – nello strappo, però, o sulla soglia. In quel lampo di farsi e disfarsi. Sentendo tutta l’estraneità, lo sconcerto di essere abitati dal diverso che è monstrum. Un po’ come quello «scandalo del contraddirmi» pasoliniano che richiama l’esperienza assurda di possedere nella povertà (ricordi Meister Eckhart?).

Ecco la conoscenza. Quella a cui invita un’altra statua ancora, il gruppo scultoreo di Francesco Queirolo che si trova accanto (l’accanto della presenza, direbbe Jullien) al Cristo napoletano, ed è noto come il Disinganno.

È così che Francesco Napoli chiosa la sua ricognizione introduttiva, programmatica, della generazione poetica italiana nata intorno agli anni Sessanta del Novecento: con il gruppo scultoreo di Queirolo, dove l’uomo viene aiutato a liberarsi della rete in cui è invischiato (e accanto c’è quella placenta che è sudario di morte del Cristo, che paradosso).

C’entra, ti chiedi, tutto questo discorso sul “corpo gnoseologico” con la sforzo critico di Napoli tramato in Poeti italiani nati negli anni ’60. Letteratura come condizione (Interno Poesia, 2024, pp. 380, euro 20)?

Eh sì che c’entra dal momento che Francesco Napoli chiama in causa (rifacendosi a Carlo Bo) due modi del fare poesia: condizione e professione; ça va sans dire, prediligendo la prima.

E se prima deve essere, quella condizione, la poesia avrà un bagaglio pesante, dovrà esplorare e farsi veggente, cioè accendere per altri la luce (quella che nel Disinganno porta in fronte il genio, simbolo dell’intelletto che indica il Libro sacro) perché l’uomo possa guardare, uscire dalle tenebre della cecità che la vita comporta, attraverso il percorso iniziatico (o massonico, in quel caso).

Si oppone, il critico, alla svalutazione della poesia, allo svincolo di quel patto che fa dell’uomo un tramite, testimone consapevole di una ricerca attraverso la carne, tutta concreta, di un dato corpo, proprio quello che, essendo filtro, setaccio, finisce per dire le sole parole che si affranchino dal mare delle possibilità, ponendo nuovamente al centro l’autore. Ecco il compito che si propone in palese contrapposizione con l’esperimento di Tommaso Di Dio che ha accantonato l’autore e la scena in favore del paesaggio, mettendo al centro il testo nella sua nudità e ricavandone un «paesaggio entropico di scritture» in cui conta il «flusso fra i testi». Rifiutato decisamente da Napoli che ritorna alla concretezza autoriale e dell’auctoritas facendosi le domande classiche del giornalismo di stampo anglosassone (incluse negli elementi dell’Aquinate), parametrando e perimetrando il campo e facendo suoi criteri geo-storiografici per condurre l’analisi verso quei poeti nati nei ’60 in difficoltà identitaria, dice Napoli, a causa dell’affondo del Novecento (come fosse il Pequod) – 1975 è la data scelta come termine già dal suo precedente Poesia presente (Raffaelli, 2011).

È una generazione, questa dei ’60, sulla soglia del nuovo che sconcerta – la fluidità, lo sgretolamento dei poli culturali dominanti, la parcellizzazione che smembra l’esperienza e conduce fin sulla porta di quella che il critico chiama (con Pasolini) illimitatezza, intendendo poi lo strapotere del web e la diffusione di una parola non mediata da una autorità riconosciuta, di peso e di valore (cioè la critica). Una generazione smarrita per molteplici fattori: per fatti assodati (quello politico, sociale), per delusione, fallimento, senso di vuoto.

«Ma quale letteratura era possibile dopo la fine della letteratura-azione del Movimento studentesco e della letteratura-negazione della Neoavanguardia con il suo portato destrutturante della lingua? Si poteva ancora pensare di riconoscersi in un campo comune di forme e di parole?», si chiede Francesco Napoli. La necessità diventa quella di essere a sé stessi padri rifondando la lingua poetica (è la funzione del padre, psicoanaliticamente, che dona il linguaggio e salva dalla simbiosi e dallo sperdimento – leggi illimitatezza – a cui invita la madre).

Una rifondazione, intendi tu, che non rinunci alla presenza ben innestata nello spazio-tempo dell’oggi. Senza preclusioni. Un viaggio dantesco che attraversi i regni. Con una guida, certo, o due: una culturale archetipica e una amorosa (leggici l’apertura di mente e cuore insieme, come per le civiltà antiche, essendo il cuore sede della memoria).

Essersi padri che si danno la legge, dunque, ma anche fratelli, l’uno con l’altro, comunque sodali. Ecco le amicizie, allora, i legami che stringono alcuni poeti della Generazione Sessanta, forse i più in vista del gruppo; ed ecco le riviste dove si gettano le basi di una somiglianza o di un fare che tenti di somigliarsi e rispondersi.

Una generazione, conclude Napoli, che pone ancora la letteratura come condizione, che avvicina la poesia all’atlante delle proprie terre emerse. Ma sempre in cerca dei continenti scomparsi, inabissati o favolosi.

Più in generale, pensi, questo è il compito della poesia. E credi che chi non se ne fa un dovere poco abbia a che fare con quel campo di fuochi dove divampano le visioni e distilla il liquore della ricerca. Quei pochi coraggiosi che ascoltano le voci dal di dentro per dirsi stranieri a sé ma molto amici degli altri. Quella presenza intima, ma mai opaca perché sempre all’acme del suo risorgente tramonto, che lascia parole incaute come traccia del suo transito. Potresti dirlo con Giovanna Frene di Sara Laughs (Edizioni D’If, 2007) (poetessa citata nel libro di Napoli ma non antologizzata a fianco dei fratelli):

questo vetro alitato in una sola direzione che presto

un colpo inferto dall’opposto infrangerà

                                               come un cielo stellato

come aprirlo anche un solo momento

senza che si rompa il diaframma salvifico?

non perché si è nelle cose

si vive

ma per i segni del piombo

Ecco, è questo. Tutta l’estraneità di una presenza che ci guarda e che ci si scopre dentro come clandestina. Illuminazione come spavento. La poesia. Quella grande che fa della parola ustione, a qualunque generazione appartenga.

Poeti italiani nati negli anni '60. Letteratura come condizione Book Cover Poeti italiani nati negli anni '60. Letteratura come condizione
Interno Libri
Francesco Napoli
Critica letteraria, poesia
Interno Poesia Editore
2024
380 p., brossura