Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Su Metronomi sotto i tavoli

Di Rossella Pretto

Ha il ritmo sincopato dell’acqua che si rompe, Metronomi sotto i tavoli di Silvio Perrella (Il filo di Partenope, 2024), quel punto di faglia dove tutto cambia, la direzione si spezza e la spezzatura è un ricordo: il farsi in musica dell’uomo, di una giovinezza in attesa che il tempo salga sul palcoscenico. Sono le note di una vita che battono suonando tutti i suoi strumenti – che sia batteria, chitarra, basso o pianoforte, arpeggiano il tempo che s’aggruma.

È la sua mano bianca che ti indica le scie all’orizzonte, le entrate e uscite del mare, la geografia partenopea, quella passeggiata tra le costole dei secoli, sulla groppa di Napoli, un mondo dentro un mondo, cortili che preludono allo scompaginarsi dello sguardo: quell’attesa che è diventata congenita, il passo del flâneur, l’occhio obliquo che tende un agguato ai chiaroscuri dove si nascondono i misteri delle storie, i misteri che sono solo la nudità delle cose a cui Silvio Perrella fa la corte. Pazienta perché possano parlare, perché l’alfabeto sia loro donato, perché lui possa metterlo in comune con le pietre – che parlino, che sussurrino.

O stavolta perché lui possa trasformare il suo alfabeto in nota, scorrere sul pentagramma e farsi oscillazione egli stesso – il suo pensiero, il ricordo che appare e scompare – prendere il ritmo del metronomo che va avanti e indietro ribaltando lo sguardo al rovescio delle cose, dove si accasano metronomi sotto i tavoli. Che cosa ci fanno là sotto? Mostrano la fodera dei giorni e il divenire presago del ragazzo che aveva bisogno di tempo:

C’era in me un brulichio

un qualcosa da non definire

una sospensione nuvole alte

era l’attenzione in agguato

e serpeggiante dietro agli occhi

Così, in questa plaquette che Perrella regala a chi sa capirne i respiri, le ore lunghe affondano e aspettano, aspettano che il miraggio si addensi e mostri – solo un barbaglio, senza il quale il corpo perde l’ombra e dilegua, senza il quale l’uomo di oggi smarrisce il ragazzo di allora e la memoria del vivere, la traiettoria sghemba che arriva per giri tortuosi fino all’oggi intonando note spezzate, versi in svenimento che lui percuote e infrange – una sincope.

Mentre Charlie suona sparatorie

nel cuore piedi in battere e levare

lavata di faccia barbuta oscura

gli scuri sbattono come gong

frullano nella mente le menzogne

vattelapesca il bandolo della matassa

è a rischio ogni battito di ciglia

E vattelapesca, sì, vattelapesca dove tutto questo ti ha portato, pensi mentre guardi i disegni di Vincenzo Rusciano che parcellizzano, accompagnano, spingono e sfondano la plaquette di Perrella. C’è un mondo esploso di frammenti, tra queste pagine, qualcosa che la vibrazione del suono fa brillare nella mina del senso, uno spargimento seminale che corrodendo il tempo si apre al desiderio, ai fasci corpuscolari delle cose che accarezzano e inseminano.

Ho musica a iosa

non me ne vanto

è solo un modo

per stare accanto

al gocciare stento

di ogni sillaba

di ogni scala

malìa del canto

sopravvivenza dell’istinto

me senza me

io spalancato

come un do di petto

In questo sfondamento potente, i versi di Silvio Perrella mostrano i piedi in movimento, il saltellare del cuore, i pensieri ondivaghi di chi ha acquistato le pinne per guadagnare il centro del palco, un palcoscenico tutto per sé, nel dialogo lento con il tempo che gli strappa talvolta uno dei suoi sorrisi, quelli che aprono alla luce il bel viso intero.

Metronomi sotto i tavoli Book Cover Metronomi sotto i tavoli
Silvio Perrella
Poesia
ilfilodipartenope
2024
64 p., brossura