Figli di ieri. Il male e l’amore
Di Rossella Pretto
Colpisce per la maestria nella scrittura, per il tratto delicato con cui accarezza i personaggi che sbozza – figurine fragili ma a tutto tondo -, per l’empatia che capisce e non giudica – qualità rare nel mondo odierno. E quello stormo di caratteri – alcuni più sfumati, altri decisi a prendere il primo piano nel volo dell’esistenza – disegna un modo di essere, una possibilità dei figli di ieri (quale il titolo indica) che sembra una speranza per l’oggi.
Il bel romanzo dell’anglista Elisabetta Sala è un gioiello che unisce all’oro della scrittura limpida le gemme di un pensiero capace di sciogliere, man mano, gli intrichi del dilemma morale che divide (e lega) bene e male (Figli di ieri, Edizioni Ares, pp. 312, euro 20).
Il libro si compone di tre parti – la prima reca in epigrafe Milton e già dice tutto: «Addio, campi felici / dove la gioia regna per sempre». Bisogna farsi esuli e andare nel mondo, saggiare la sofferenza per dirsi completi. Una sostanza che appare leopardiana, un «basso stato e frale» della condizione umana, nostalgica verso un mondo edenico da cui si viene allontanati, estromessi, ma si apre anche all’impegno di un agire che diventi faro di civiltà.
È così che Tino, un bambino di 10 anni nato in Valcamonica e amante dei paesaggi incontaminati delle montagne ma anche della vita semplice che si svolge lassù, è costretto a lasciare il paese natale per seguire i genitori che vanno a cercare lavoro a Milano. Le vette, i laghi, i boschi vengono sostituiti da paesaggi urbani, perlopiù periferici, dove le famiglie si stipano in appartamenti troppo piccoli e si accontentano di un tran tran che li separa ormai dai ritmi naturali.
Tino sogna da sempre di essere un supereroe, uno di quelli dei suoi fumetti, perché fin da bimbo si è posto l’obiettivo di salvare l’umanità – da cosa ancora non sa, ma comprende immediatamente che la visione manichea che vede bene e male separati non funziona. Per nessuno. Siamo tutti in qualche modo implicati in quell’atomo opaco del male che è la terra.
«In quel momento notturno in cui i pensieri si fanno cupi e i sassi paiono montagne, si disse che tutto, al mondo, era più grande delle povere ambizioni umane. E tutto quel parlare di gloria era reale? O era un modo per negare la propria pochezza, la propria nullità», pensa il ragazzo che, nel frattempo, cresce e si confronta con il proprio presente, con la storia e il portato degli anni ’70 (il romanzo si apre nel settembre del 1965 e termina nel maggio del 1977), quindi con tutto ciò che concerne i collettivi studenteschi, la riflessione sulla giustizia e l’equità sociali, il marxismo, ma anche la violenza della lotta armata e i grandi fatti di quel periodo.
Non è indifferente, il proprio operato, sembra voglia proporre con forza Elisabetta Sala, mai, neanche nelle piccole cose, mai neanche nelle scelte personali. Possono cambiare un destino, più d’uno. Ma come si ci pone di fronte a queste sfide?
In un colloquio con Piero, uno degli amici più stretti, Tino se lo chiede e si chiede se il loro ideale potrà continuare («perché poi, non appena gli uomini smettono di concentrarsi sulla virtù, zàcchete, in un attimo ritornano bestie»). Piero gli ha detto che servono autodisciplina, autocontrollo, per schiacciare la bestia interiore e diventare pienamente umani. E poi cultura, educazione, senso della giustizia.
Solo che Tino non la fa così facile. Sa che il problema del male deve essere affrontato a viso aperto. Il male è qualcosa che si insinua, subdolo, la sua maschera inganna, pare amica e poi mostra i denti. «Erano consapevoli», si racconta verso la fine, «che in qualche strano modo, per qualche occulto meccanismo, qualcosa di acre, osceno, repellente, si era infilato proprio in mezzo a loro. Era brutto; era male; era il Male. Non un’entità astratta, l‘assenza di bene o di benessere, la complementarità degli opposti, l’ombra di cui la luce ha bisogno, come avevano amato raccontarsi a vicenda. Non era neppure un incidente di percorso, come quando un nemico aveva massacrato di botte Lorenzo Olivari. Era una presenza fisica, un boccone amaro che avresti voluto sputare; era qualcosa di disgustoso e opprimente che avanzava inesorabile e che tu non potevi controllare; qualcosa di potente e tremendo da cui potevi solo fuggire».
Quella bestia furente si annida anche tra gli amici, anche tra i maestri. È tra noi. E l’utopia non sta al passo. Contano l’azione consapevole, l’abnegazione, la perseveranza. Conta l’amore, granello per granello. Conta l’essere umano.
E così, la storia che Sala delinea con partecipazione e tenerezza si apre anche ai primi sentimenti amorosi di Tino, lo mette di fronte all’intrico del cuore umano, ai valori che il proprio stare al mondo comporta. Il romanzo restituisce tutta la meraviglia e lo sconforto di chi guarda all’altro e vede cadere sogni di perfezione. Grazie a quell’esercizio, però, all’esercizio del dubbio e della compassione, il giovane protagonista riesce ad accogliere la differenza che un altro essere implica, ad accoglierla e, cristianamente, a porre l’amore come vetta insuperabile del proprio panorama esistenziale.
Solo così le sue montagne (l’Eden) possono riapparire.
Narratori
Narrativa
Ares
2024
312 p., brossura