Di Massimiliano Priore
La rivolta di Budapest (23 ottobre – 4 novembre 1956)
Negli ultimi anni, si è parlato spesso dell’Ungheria. Da Ilaria Salis ai Campionati del mondo di atletica leggera 2023, passando dal rapporto tra Giorgia Meloni e Viktor Orbán. Inoltre, Budapest nel 2026 ospiterà la finale della Champions League.
Allora, perché non recensire un libro dedicato a uno degli avvenimenti clou della storia magiara, ovvero La rivolta di Budapest (23 ottobre – 4 novembre 1956)? Scritto da Tibor Méray nel 1965, il titolo originale è Budapest (23 ottobre 1956).
IL LIBRO DI TIBOR MÉRAY
Giornalista e scrittore vicino a Imre Nagy, l’autore non solo fa una cronistoria degli avvenimenti di quelle due settimane, ma confuta le falsità che vennero dette dal regime e dai suoi simpatizzanti. Infatti, mette in evidenza che non si trattò di una controrivoluzione reazionaria ordita dall’Occidente capitalista e dai sostenitori dell’Ammiraglio Horthy, il capo di Stato del Regno d’Ungheria dal 1920 al 1944. Si alleò con il Terzo Reich. Curiosità: era il reggente in un Paese senza re. Il dibattito su di lui è aperto.
Certo, i suoi seguaci cercarono di trarre vantaggio dalla situazione che si era creata, così come quelli dell’arcivescovo József Mindszenty. Ma non ci riuscirono. A proposito dei primi, un esponente del Governo Nagy, nominato primo ministro per accontentare il popolo, disse che nella nuova Ungheria non c’era spazio né per loro né per gli stalinisti.
I due interventi dei sovietici
L’autore ammette che vi furono episodi di violenza estrema e di anti-semitismo da parte di alcuni rivoltosi. Episodi che vennero presi a pretesto dai sovietici per il secondo intervento, quello repressivo e decisivo.
Anche Tito se ne servì per giustificarlo (p.320):
“Se il governo Nagy […] avesse agito risolutamente contro il caos, contro le stragi dei reazionari ai danni dei comunisti […] le cose si sarebbero aggiustate, e forse non ci sarebbe stato un intervento sovietico”
Tuttavia, si verificarono prima della decisione dei russi di andarsene. Eh sì, perché in un primo momento sembrò che le truppe dell’Armata Rossa di stanza in Ungheria dovessero tornare in patria. Dissimulazione? Cambio di decisione da parte di Mosca? Sicuramente, nel Pcus c’erano due anime, una favorevole a un accordo con il Governo Nagy e una contraria. Prevalsero i falchi. Secondo Méray, gli emissari sovietici erano sinceri quando garantirono agli ungheresi che i soldati stavano per lasciare il Paese.
Un ruolo importante nella decisione di Krusciov lo ebbero i regimi degli altri Paesi satelliti e, soprattutto, quello cinese, che temevano ripercussioni in tutto l’Est. Anche il Partito Comunista Francese attaccò i rivoltosi. Eppure, molti esponenti della sinistra transalpina stavano dalla parte della gente di Budapest.
Eppure, in un primo momento, Pechino e Belgrado guardarono con simpatia a questo movimento. Poi, cambiarono idea seguendo il principio della realpolitik.
Il ruolo dello Stato ungherese
Eppure, anche all’interno del Partito Ungherese dei Lavoratori-Magyar Dolgozók Pártja (ossia l’unico che contava) non tutti erano contro i manifestanti. Ad esempio, sull’organo ufficiale dell’Mdp comparvero degli articoli a loro favore.
Inoltre, quasi tutto l’esercito e buona parte delle forze dell’ordine (tra cui tanti ufficiali) stavano dalla loro parte. Non ce ne dobbiamo stupire.
Il punto è che tutto partì dalle istanze di cambiamento espresse proprio dai giovani del Partito Comunista.
Chiamo così il Magyar Dolgozók Pártja perché di fatto lo era. Prese questo nome dopo la fusione con il Partito Socialdemocratico d’Ungheria, ma i comunisti rimasero la parte egemone. Rákosi, il leader stalinista, aveva indebolito l’alleato con la strategia delle fette di salame, che consiste nel far fuori qualcuno poco alla volta.
Proprio nei giorni della rivolta, l’Mdp cambiò nome e divenne il Partito Socialista Operaio Ungherese (Magyar Szocialista Munkáspárt, Mszmp).
Méray spiega così l’appoggio dell’Esercito ai ribelli: la maggior parte dei soldati e degli ufficiali era di estrazione contadina e, quindi, popolare.
23 OTTOBRE 1956, BUDAPEST
Le istanze, espresse in 14 punti, diedero vita alla maxi-manifestazione pacifica del 23 ottobre 1956, che coinvolse tutti gli strati della popolazione. Un episodio ebbe come protagonista una signora molto anziana, che alzò un braccio al cielo e gridò felice “Ejlen” (Evviva), il motto del corteo che stava attraversando la capitale ungherese.
Che cosa volevano? Faccio un elenco (incompleto) delle loro richieste: una democrazia effettiva, la libertà di stampa e di espressione, il ripristino dei simboli e delle festività nazionali, un rapporto paritario tra l’Ungheria e l’Urss, il ritiro di tutte le truppe sovietiche, una tassazione più equa, delle riforme economiche, la rimozione della statua di Stalin, il rimpatrio degli ungheresi trattenuti illegalmente in Russia.
Il destinatario delle speranze del popolo era proprio il Partito. Il Partito avrebbe dovuto guidare la trasformazione dell’Ungheria. Ma i suoi dirigenti, in particolare il segretario Gerö, non lo capirono e allora la capitale divenne un campo di battaglia.
DIFFERENZE TRA IL PRIMO E IL SECONDO INTERVENTO SOVIETICO
Dicevamo prima che vi furono episodi di violenza e di anti-semitismo e che il Cremlino li sfruttò per giustificare l’intervento.
Un altro espediente fu il sostegno a un partito (fantoccio) presieduto da Kádár che, secondo loro, godeva dell’appoggio delle masse popolari.
A proposito di menzogne, la seconda volta (4 novembre) furono mandati soldati provenienti dalle repubbliche sovietiche asiatiche, ai quali fu fatto credere che era in atto una rivolta fascista. A detta del canale YouTube Dentro la storia fecero questa scelta per evitare che fraternizzassero con gli ungheresi.
Al contrario, la prima volta, cioè dopo i fatti del 23 ottobre, erano intervenute truppe di stanza in Ungheria da molti anni. Il loro atteggiamento era stato abbastanza morbido e vi era stata persino qualche defezione. Forse qualche soldato aveva addirittura creato dei legami con la popolazione locale e anche questo avrebbe potuto rendere più difficile un intervento spietato, ipotizza sempre Dentro la Storia.
Queste le parole dell’autore del libro sui soldati che si trovavano in Ungheria da tanto tempo: “La loro presenza è discreta, appena percettibile” (p.65). E poco più avanti (p.66): “La loro condotta sembra offrire meno occasioni di eventuali incidenti di quelle delle truppe americane nelle isole giapponesi”.
Al contrario, ecco ciò che ha scritto su quelli mandati la seconda volta: “Parlano un russo molto approssimativo […]; ignorano persino dove si trovano. Non pochi prendono il Danubio per il canale di Suez” (p.309).
La crisi del Canale scoppiò negli stessi giorni e giocò a favore dell’Urss.
In più, a differenza dell’intervento di ottobre, vennero utilizzati carri armati T-X 34. “Fabbricati di un sol pezzo, senza saldature, offrono ben poca presa all’azione delle bottiglie Molotov” (pp. 308-309). E l’artiglieria e l’aviazione ebbero un ruolo determinante.
IMRE NAGY E PAL MALÉTER
L’uomo al quale gli insorti affidarono la guida del rinnovamento, Imre Nagy, era un comunista.
Così come lo era il militare che divenne il leader dei rivoltosi durante gli scontri con gli Avo, la polizia politica. Si chiamava Pál Maléter. E pensare che era stato mandato a reprimere la ribellione. Fu anche ministro della difesa durante il breve periodo del Governo Nagy (ne fece parte anche il filosofo Lukás).
Nella notte fra il 3 ed il 4 novembre alcuni uomini del Kgb (ma nel libro si parla di Nkvd, sciolto nel 1946) irruppero in una caserma dell’Armata Rossa e arrestarono Maléter mentre negoziava con i militari sovietici le condizioni per il ritiro delle loro truppe. Méray riporta le parole di un membro della delegazione ungherese, rilasciato dopo anni di prigionia.
“Il generale Malinin, eroe dell’ultima e capo della delegazione sovietica, ha offerto un banchetto in nostro onore. I dissidi si erano appianati, eravamo d’accordo su tutto, il ritiro delle truppe sovietiche era concordato. […] L’atmosfera era quasi gaia quando, poco dopo la mezzanotte un ufficiale sovietico con una blusa alla Stalin […] irruppe nella stanza con alcuni ufficiali della NKVD. […] Circondati dagli agenti […], ricevemmo l’ordine di seguirli ad uno ad uno verso l’uscita. Allora sentimmo delle scariche di mitra nel cortile. Pensammo: ci stanno massacrando l’autista e il resto del nostro seguito” (p.306).
L’uomo con la blusa alla Stalin era Serov, il capo del Kgb e molto vicino a Krusciov. Malinin protestò (la caserma era sua), ma Serov lo zittì (fonte: Dentro la Storia).
L’esecuzione e le reazioni
Maléter venne impiccato in una prigione di Budapest il 16 giugno 1958, insieme a Imre Nagy e ai giornalisti Gimes, Szilagyi e Losonczy.
La notizia della morte del primo ministro venne data qualche giorno dopo. Alcuni esultarono. Per esempio, il Partito Comunista Bulgaro commentò così: “I cani sono stati sterminati” (p.326). Forse, i più misurati furono proprio i giornalisti sovietici: “Il verdetto è stato severo ma giusto” (sic-ibidem).
Tuttavia, sempre a pagina 326, leggiamo: “A Budapest, la gente piange per strada”.
ALCUNI ELEMENTI DA SOTTOLINEARE DE LA RIVOLTA DI BUDAPEST (23 OTTOBRE – 4 NOVEMBRE 1956)
Cinque meriti di Tibor Méray in questo libro (oltre ad aver fatto capire il significato e le cause di questa insurrezione).
1) L’aver riportato le testimonianze di chi visse quei momenti. Lui stesso era là.
2) L’aver fatto un bilancio della situazione una decina d’anni dopo i fatti del ’56. Riconobbe che l’Ungheria era uno dei regimi totalitari più liberali (aveva questa fama), ma scrisse anche che la situazione non era delle migliori. La prova? L’incremento degli aborti.
3) L’aver tracciato una piccola biografia degli esponenti della nomenklatura comunista, compreso Imre Nagy. Uno di loro, Kádár, guidò il Paese fino al 1988. L’anno successivo ritornò in vigore il sistema multipartitico.
4) L’aver spiegato in modo esaustivo e chiaro il funzionamento dei regimi dei Paesi dell’Est e l’aver raccontato la storia di quello ungherese.
5) L’aver precisato che i sovietici chiusero le frontiere già all’inizio di novembre. Lo metto in evidenza perché tra i profughi c’era Ágota Kristóf. La scrittrice, nata nel 1935, visse e morì a Neuchatel (Svizzera). Ma è sepolta nel suo Paese, a Kőszeg.
LE REAZIONI DELLA SINISTRA AI FATTI DI BUDAPEST
Il libro di Mérayè uscito nel 1965, quindi tre anni prima della Primavera di Praga. Forse, la rivolta cecoslovacca è più famosa di quella ungherese (probabilmente, grazie anche ai libri di Kundera e al sacrificio di Jan Palach).
In Italia
Di certo, mutò la posizione del Pci, che nel 1968 condannò la repressione sovietica.
Invece, nel 1956 stava dalla parte dei carri armati. L’Unità definì i ribelli teppisti, spregevoli provocatori, fascisti e nostalgici del regime horthyiano. Non mi dilungo sulle dichiarazioni e sulle azioni dei dirigenti comunisti italiani perché nel libro non se ne parla.
Però è giusto ricordare che non tutti gli aderenti al partito erano in linea con la segreteria. Negli anni successivi si registrò un calo degli iscritti. Molti intellettuali si allontanarono. Vi furono anche delle manifestazioni di piazza di militanti comunisti in favore dei rivoluzionari ungheresi. Da menzionare il Manifesto dei 101.
Anche il Psi di Nenni condannò l’intervento sovietico.
Nel resto del mondo
Torniamo al libro. In altre parti del mondo vi furono manifestazioni di simpatia nei confronti della rivoluzione ungherese. Cito alcuni episodi (circoscritti al mondo di sinistra). A Rotterdam i portuali non vollero scaricare dalle navi sovietiche (p.312).
Molti scrittori francesi pubblicarono una nota di protesta sul France Observeur. Alcuni nomi: Sartre, Camus, de Beauvoir, Prévert (p. 313).
A Vienna, 500 delegati della Gioventù Socialista Austriaca sfilarono davanti all’ambasciata dell’Unione Sovietica con la bandiera rossa listata a lutto (p.313).
Dopo l’esecuzione di Nagy e degli altri, Horner, presidente dei sindacati delle miniere inglesi e dirigente del partito comunista, disse: “L’assassino di Imre Nagy e dei suoi compagni è orribile e assurdo” (p.327).
Psi vs Pci
Per Pietro Nenni sarebbe stata preferibile un’amnistia (ibidem). Poco prima di scriverlo, Méray aveva ricordato che nel 1956 il Pci e il Psi erano molto vicini. Le divergenze sui fatti di Budapest furono tra le cause dell’allontanamento.
E la destra?
La destra non fa certo un favore agli ungheresi quando canta Avanti, ragazzi di Buda o qualche sua traduzione. Scritto da Pier Francesco Pingitore (sì, quello del Bagaglino), il brano appartiene alla galassia neo-fascista.
Scheda libro
Titolo: La rivolta di Budapest (23 ottobre/4 novembre 1956).
Autore: Tibor Méray. Traduzione: Michele Marangoni.
Genere: Cronaca.
Casa editrice: Mursia (edizione utilizzata: Club degli Editori).
Data di pubblicazione: 1969.
Pagine: 362 (345 + tavole con fotografie).
Titolo originale: Budapest (23 ottobre 1956).
Casa editrice: Robert Laffont.
Data di pubblicazione: 1965.