Prosimetri di Giovanna Dal Bon
Di Giovanna Dal Bon
Corpi disuguali
Torcendo il collo ad un torto solitario sgominata la banda viaggiavano da remoto nello sgomento di un’intuizione prematura due figure in un interno di Grecia ben conosciuti volti amici e il loro tacere fungeva da parabrezza a fiotti di nozioni e messaggerie senza filtro altrimenti li vedevi industriarsi per fare a meno di tanta civiltà e connessione ma era parco il pomeriggio e loro volevano attenervisi fu così che dovettero farsi perdonare il non scegliere e declinare promesse e inviti bandi di concorso voti e outlet impuniti insieme di convenevoli e risorse in eccesso in due si chiedevano se fosse chiusura o claustro operoso questo star discosti un esilio più vasto ed autoimposto fin da subito serrò i ranghi e non si chiesero oltre
Ingurtosu (miniera chiusa nel 1992)
Un’insisitenza gli premeva la spalla l’omero e le membra appena abbozzate da un’età incerta e malevola lo si voleva utilizzare per sondar cunicoli e spazi angusti la miniera era una risorsa ed inghiottiva anche i suoi fratelli maggiori il padre e la madre in altro ruolo cernitrice di pietre a mani nude instancabile con le altre donne che scorticavano mani in zona emersa e battuta da vento sole o gelate d’ inverno lui tumulato in viscere di buia minaccia fatica fame rumore a renderlo sordo a sotterrargli l’infanzia in turni di interminabili dodici ore in balia di precoce morte una necropoli sarda in guisa d’alveare per estrarre galena argentifera a rifornire porti del continente senza pietà dilania anime e corpi lacerati in ingiustizia eterna
In allento
Calura che ottunde e ottenebra in lattigine gli emisfer in allento molle le sinapsi collasso d ‘aria africa e anticicloni fermenta la notte per restituirci madidi in albe delabrè sempre pavidi all’alzata larvali in strascicati passi nel non poter fare nel non volere abitato d’inerzia e disattivate membra nell’opale
Rapido elogio del furor
Certe voci in cerimonia impostate certe mimiche atteggiate allo stucchevole furibondano in ascesa d’ira più che funesta si vorrebbe squarciar labbra e bocche atteggiate al commiserare far esplodere il magma assurdo del convenevole strascicato errore che lumeggia tra i capitali peccati di chi non si attiene ed insiste brulicando di sdegno per poi sfinire in bagni al sale in autoesilio meritato
La panchina
Ferma e sbucciata dalle intemperie fronte fiume che a tratti tumulta ostaggio di una sola figura che la occupa in ore pomeridiane una vecchia curva di occhi intenti all’acqua come al defluire di una vita esposta a quell’incessante andare verso dove forse ci sarà uno sbocco ma non è questo il pensiero che la attraversa in quei lunghi istanti di stasi apparente forse macera ricordi d’ardesia grumi di decrepiti remoti accadimenti che ora consegna al fiume
Joao Gilberto
La bossa nova nasce dentro un sogno dai soffitti alti sussurrata dulcedo urge nelle vene del ragazzo nella casa paterna a diamantina piccolo pueblo brasiliano un dio nostalgico trapassa le pareti del bagno in cui trova rifugio sorgono ritmi di parole a voce bassa quasi parlando qualcosa di trafittivo e serrato interroga il tempo come una rivelazione nel cuore del nulla ore a cercarla e perderla filarla nel riposto fino a vecchiaia in povertà e nascondimento in estasi che rinnova