Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

Puoi ancora dirmi di sì: l’arte segreta di Alfredo De Dominicis

Di Rossella Pretto

Solo poche sere fa, guardando il film documentario sulla vita di Picasso nel cortile di Palazzo Reale a Milano, hai riascoltato le parole del pittore spagnolo sull’arte: una menzogna, certo, ma una di quelle in grado di avvicinare alla verità dell’Essere – come sapeva bene lui; o Wilde; o i Greci, che hanno affidato quella sostanza sottile a enormi mascheroni capaci di creare il giusto artificio per svelare la profondità del loro pensiero sull’uomo; e lo sa anche Anselm Kiefer, citato da Alfredo De Dominicis in epigrafe al suo nuovo libro di racconti, molto belli, Puoi ancora dirmi di sì (La vita felice, 2024, pp. 152, euro 14).

È questo – la menzogna conoscitiva dell’umano creare -, insieme alle geometrie del nascosto (titolo del primo racconto), che De Dominicis declina a più riprese, instancabile indagatore di ciò che per manifestarsi al mondo si offusca. Così affascinante, pensi. Dicendolo con un’altra delle epigrafi, stavolta di Christian Bobin: «Illumina ciò che ami senza toccarne l’ombra».

L’arte e la letteratura sono l’impalcatura dell’orizzonte – e tu non potresti capirne più a fondo il senso, o forse l’illusione (che importa), ma a quel tentativo e a quella fede sei grata. Se siamo miraggi e nulla di ciò che sperimentiamo ha una sua consistenza ma tutto si sbriciola tra le mani oltrepassando i sensi, allora perché non accasarsi su quanto abbiamo immaginato per decrittare i geroglifici del nostro esistere? Perché non restare asserragliati nella cattedrale dell’arte certi di poter modellare l’ossatura sulla svaporante fontana di luce di un bengala?

È così che si palesa una voce profonda, come ti capitò di sentire una volta – al culmine di ciò che credevi un silenzio perfetto – una voce che raccontava in loop la storia di un imperatore: il castello della mente narrativa che custodisce l’arcano dell’essere umano nelle storie archetipiche che lo contengono.

Chi era a parlarti dentro? Non ha importanza, ma sai che era – ed è – la materia non accidentale della coscienza, il Logos ulteriore, che si squaderna quando la parola sembra fallire e affondare nella quiete del nulla primordiale, in tale sospensione.

È questo che fa, o tenta di fare, la letteratura. Avvicinare al cuore di quel segreto.

Così Alfredo De Dominicis, che si nasconde nelle tante forme di esseri umani (uomini e donne) che sbozza, e in cui si rintraccia, però, sempre la sua voce: nell’essenza, invariabile. Intima. Si riconosce, cioè. Così come si riconosce Picasso nelle infinite varianti della sua maschera di Arlecchino o Minotauro: sono suoi gli occhi sporgenti che vedi nella girandola delle differenze.

Arte come nascondimento, arte come luce che più naufraga più dice l’emersione di una rivelazione sacra e laica: l’uomo è le sue rifrazioni. Turbamento e batticuore. O ciò che si frantuma. «Si guardano i quadri per scoprire un segreto lo sai?» dice il protagonista del primo racconto «Che non riguarda l’arte, ma la vita stessa. Ogni opera custodisce due segreti: uno è quello dell’artista, l’altro è quello dell’opera stessa, che neppure l’artista conosce!».

Il segreto dell’opera, il segreto della macchina fotografica, nel racconto “La fine del gioco?”, dove si esplicita che «Avere un’anima vuol dire avere un segreto». Quanto ti ricorda Javier Marias, e Magris che tanto l’ha amato e rivelato proprio tramite la categoria del segreto.

Anche questo è amore. E che cos’è? Accudimento della polvere, di ciò che non possiedi e a cui non torcerai un capello, difformità e imperfezione, inabissamento del conosciuto.

Sono 8 racconti, quelli dello scrittore ed editore napoletano – della trama non dirai nulla: si regge su un filo sottilissimo e non ha bisogno di intrusioni – che si dipanano e, intrecciando l’amore, intrecciano la domanda (quella che in un racconto il protagonista pone a Siri, spaesante) e che tu potresti dire così, con alcuni tuoi versi:

come tintinna come squilla

così assoluta e nitida

come tra vette e nevi così

tra nebbie e pioviggine

la voce che liberi e intorno

nessuno

come tra nevi e picchi ma è solo

vapeur d’eau, sottile

muro d’acqua a pelo d’occhio

sospeso come fiato trattenuto

e intorno nessuno

attutita la voce e assoluta

squilla e galleggia

nel vuoto tribunale di una

domanda

la mente è una stanza deserta

nella calca delle pareti in fuga

a frotte verso lo scuro di una

domanda

ti aggiri tra i banchi bui della notte

palmi aperti in voce e richiesta

d’annichilente assoluto

mentre sogni il cavo di un albero

dove accasarti e tornare

pagana

ad ascoltare gli spiriti dei boschi

La domanda di Alfredo De Dominicis è anche una domanda sulle origini, una domanda sulla madre, come se interrogando il ventre che partorisce ogni essere umano si aprisse la possibilità di vedere oltre, verso la “Grande” madre, come è “Rosalba Firrao” (altro racconto): umanissima, sì, ma abitatrice della contraddizione forte dell’esistere: «Sempre solo in una contraddizione posso vivere» – è la terza epigrafe di Franz Kafka che apre il libro.

È il mistero del nascere a cui guarda lo scrittore – o meglio, il mistero della vita – e anche l’enigma dell’essere umano che sfugge, così come una madre sfuggirà sempre allo sguardo del figlio, tema molto presente nella raccolta. Una madre, o anche il giardino segreto dell’interiorità di ognuno. Da preservare per dar spazio all’anima, come hai visto, o dar spazio al funambolo che cammina nel cielo delle Torri gemelle, nell’ultimo racconto:

«Un funambolo si nutre, vive di ossessioni […] d’altronde soltanto se si è rapiti in modo assoluto da qualcosa si riesce poi a fare delle cose straordinarie. Si tratta di far perfettamente coincidere il nostro essere con l’ossessione di cui siamo preda (alcuni dicono che in questo modo un’ossessione diventa una mania); soltanto così la nostra pratica diventa Arte. L’arte ha bisogno di questo, non della perfezione. La perfezione può essere una tensione, una ricerca, ma pensare di farne il fine è da cretini».

L’aderenza a sé stessi e al proprio alieno.

Alfredo De Dominicis si racconta – segretamente, con autenticità – e così facendo ci esplode dentro, esattamente come una contraddizione vitale che mostra in quanti modi si possa poeticamente abitare una domanda.

Puoi ancora dirmi di sì Book Cover Puoi ancora dirmi di sì
I libri dell'alfabeto
Alfredo De Dominicis
Racconti
La Vita Felice
2024
152 p., brossura