Vite periferiche
Di Geraldine Meyer
Clochard, senza dimora, barboni. Tante definizioni per un unico sguardo, solitamente non vedente, il nostro. Uomini e donne che incrociamo spesso, che mai o quasi mai, diventano per noi un inciampo. E quando lo diventano è spesso per uno spazio di racconto, per una storia che diventa nome e volto. Accade, per esempio, quando si fa volontariato o quando, in un certo senso, si legge un libro come Storia di mia vita, edito da Sellerio e scritto da Janek Gorczyca. Janek, polacco, scrive questo libro direttamente in italiano, una lingua non “sua” e certo non imparata sui libri ma, semmai, nei giorni e nelle vicissitudini di trent’anni di vita in strada, a Roma.
Janek è un uomo che scardina non poco quell’immagine stereotipata che solitamente si ha quando si pensa a un senza dimora. Conosce molte lingue, ha sempre avuto qualche lavoro. Allora perché questa sua vita? Il libro non da risposte ed è giusto così. L’insondabile mistero di ogni esistenza non può e non deve necessariamente essere sciolto. C’è un inizio, come sempre, un fattore scatenante. Qualcosa che dovrebbe farci comprendere come il confine tra una vita “normale” e una vita da clochard sia sottilissimo. Nel suo caso è stata la rottura, traumatica e non pacifica, con la moglie e la conseguente perdita (non per morte) del figlio. Janek parte e arriva in Italia.
Storia di mia vita non è un diario, non è un reportage, tanto meno un romanzo. È una storia, la sua. Scritta con un italiano ruvido eppure preciso, tagliato nella roccia, essenziale. E il tono è quasi senza sentimenti, senza strizzate d’occhio alla pietà. Né la sua né quella degli altri. Occupazione di edifici, scuole abbandonate, cartoni o tende nei parchi, a volte ospitate in casa di amici. Un bisogno altalenante di avere attorno e accanto una comunità e l’incapacità sostanziale di convivere con altre esistenze e vite. Un oscillare tra gesti di estrema generosità e gesti di brutale violenza, anche contro la donna di cui si innamora e che morirà per un cancro. Pestaggi, furti, relazioni. Relazioni. Perché quello che più colpisce di questo libro, di questa storia e di questa vita è, in fondo, proprio questo. Janek costruisce relazioni. Anche in una vita come la sua.
Leggere Storia di mia vita è un po’ come sentire sulla pelle una carta vetrata. Janek racconta di un uomo che va al lavoro, assiste una persona malata, gira per ospedali, si scontra con la burocrazia per avere un documento, si scopre alcolista. Tutto come fosse semplicemente la vita, una vita, la sua. Senza mai abbandonare un tono che viene quasi da definire asettico. E forse, proprio per questo, ancora più tagliente. Perché è tagliante riuscire a raccontare una storia come questa senza farla apparire come qualcosa di straordinario. E questo fa male. O almeno dovrebbe. Una vita ai margini che, nonostante tutto, tanto marginale non è. È questo a colpire. Una vita che fluisce accanto a quella di altri migliaia di persone e che potrebbe definirsi per ciò che Janek non ha, cioè una casa. Invece riesce a scavallare questo aspetto per dire molto altro. Per dirci che Janek è molto altro e molto di più. Ce lo ricorderemo quando vedremo un clochard dormire per terra?
Il contesto
Memorie, storia vera
Sellerio
2024
144 p., brossura