Sono nata a Vicenza, città che ha visto la mia partenza e il ritorno, dopo anni passati a Roma, prima all’università e poi a confrontarmi con il mondo del lavoro. Ho fatto l’attrice, la presentatrice televisiva, l’adattatrice dei dialoghi per il doppiaggio. Sono passata sulle tavole dei palcoscenici, negli studi televisivi, tra le scenografie di Cinecittà, sono entrata nelle case di grandi maestri, conosciuto la vita di artisti e di piccoli artigiani, percorso le strade della città eterna. Ho avuto molti giorni felici nella capitale, incontrato tante persone, dalla più umile alla più boriosa, respirato l’aria di una città elefantiaca e affascinante, guardato mille tramonti con la quinta di un colle punteggiato di pini dagli alti fusti o attraverso archi e fori della sua grandezza. Ho fatto progetti, mi sono disperata, ho stretto amicizie, le ho perdute. Fino al momento in cui è diventato tutto più chiaro: abbandonare Vicenza significava abbandonare un’idea di creazione attraverso la scrittura. Non so perché ma è stato così. Oggi tutti desiderano scrivere, molti lo fanno, sembra facile, meno semplice è crearsi gli strumenti adatti, far crescere un talento mai affinato. Così ho lasciato Roma per Milano e Milano per Vicenza, la mia città. Ora esploro le mura del mio studio. Il resto lo trovate sul suo sito rossellapretto.com

L’estasi yeatsiana di Rosita Copioli

Di Rossella Pretto

Ricordi le soglie dei boschi, la luce che sbarbaglia corrusca lanciando l’ultimo invito al viaggio, all’instabile precarietà delle ombre; il tremolio a pelo d’acqua in cui il mondo si disfa e rabbrividisce sgranando le energie fatate dello stagno?

Come dirlo se non accettando il mancamento, il deliquio (ma lucidissimo) che rianima le bocche inaridite dell’intuizione? È un’impotenza al governo della norma, quando le cose incespicano e passano di stato retroilluminandosi come una chiesa sfondata ma accesa dal silenzio bianco della neve.

O ricordi, per dirla in altro modo, quella percezione di “Anima a riposo”?

È sospesa, questa navicella del tempo,

tra le falde d’ombrelloni che sventagliano

chiusi, nel sole basso che sa di mezz’inverno

mentre il cane Teo annusa vita di risacca

legni portati dal mare come anime di affogati

o morti, quei granchi,

imputriditi tra mosche ringalluzzite dall’aria,

ora limpida, dopo le mandibole d’acciaio

occultate dallo sciabordio dell’onda

È sospesa, la vita, e profuma di mare

quest’interim dove non sei o sei forse

proiettata in uno spazio concavo

con l’anima a groviglio sferzata dal vento,

il circo dei capelli, fili

del tuo aquilone scomposto dalle correnti

dei recessi dell’universo o abissi

dove il buio si spacca e ti genera

per galleggiamento

(dove sei cosa non sai)

Per dirla con parole che tentino – hanno tentato – di significare la soglia che fa aliena la luce, e dove accadono prodigi, le immagini si slegano e sono. Fuori/dentro.

È ciò che hai scritto abitando quel tratto di mare dominato dalla linea imperitura, un orizzonte sconfinato o sconfinante: il mar Adriatico, giusto a un passo di distanza dalla bella poetessa di Rimini amante ed esegeta di W.B. Yeats, in quella che appare come una summa dello studio di una vita, restituita nel corposo e mirabolante William Butler Yeats, Omero in Irlanda della collana Profili delle Edizioni Ares (pp. 392, euro 25). Impresa licenziata dalla sacerdotessa dagli occhi di ghiaccio Rosita Copioli, che accosta a una prima parte del suo personalissimo “Viaggio in Yeats” (denso memoir, dottissimo, pieno di curiosità e molto intimo, in certi punti, per la sincerità di alcune domande nude, come quella urticante inerente al sacrificio del poeta: «E allora perché, sapendo che può non essere necessario tutto questo sacrificio – simbolico e non – con il dolore che reca, ho seguito quella via di un’estetica “etica”?») a una seconda composta di saggi scritti in precedenza, altrettanto belli e ricchi di spunti e osservazioni. È così che la poetica del Nobel irlandese viene disseminata in feconda diffusione facendo apparire in filigrana quella di Copioli, come carta moneta di un commercio tra poeti, tra anime vaste.

Copioli traccia la sua personale geografia di riferimenti e intarsi dando la mano ai maestri (da Anceschi a Eliade, da Izzo a Manganelli, mettiamola così), parlando di incontri (quello con Anne Yeats, per esempio, o con Michael, l’altro figlio del poeta, con Elémire Zolla e la studiosa Kathleen Raine), raccontando di imprese e di compagni (l’avventura della rivista “Altro versante”, i convegni, i viaggi, gli omaggi), narrando del grande Federico Fellini e del suo mondo, così onirico e affine, mostrando e ricordando l’esperimento di sé e del proprio mutamento – «Avere a che fare con Yeats voleva dire seguire la sua mente, e non posso dire che la mia gli fosse lontana» scrive; e poco dopo continua: «Sono sempre stata combattuta, la mia natura razionale mi faceva a pezzi, ma se non avessi assecondato la luna non avrei avuto quelle rivelazioni che di volta in volta costruivano per immagini la mia poesia. Credo di essere stata una specie di corpo in esperimento, di me stessa attraverso me stessa, e senza indulgenze, sebbene mi sia costretta a seguire gli impulsi». Racconta dello sperdersi per ritrovarsi difformi ma aderenti alla musiké, alla totalità dove tutto risuona e parla all’unisono agendo sull’anima e trasformandola, riportandola al centro per riportarvi anche il mondo immaginale (la spissitudo spiritualis), ridando così fiato al pensiero simbolico e alla meraviglia connessa a un approccio ermetico e sapienziale banditi dalla nostra poesia moderna, che vieta la visione (essendo invece A vision l’apice della restituzione conoscitiva yeatsiana). Yeats serve alla poetessa anche per srotolare la via impervia per giungere all’altrui nucleo incandescente, quello che poi si è riversato nella centralità del suo fare, negli archetipi che – come per lei Elena – intessono l’Anima Mundi. È un viaggio ai confini del sogno, o forse necessario a capire cosa distingue o accomuna poesia e sogno, tanto è intrigante da aver intrigato tanti –

Ricordi, solo pochi giorni fa, la visione del film di Nolan, Inception? Un sogno condiviso da cui si possono estrarre segreti o innestare pensieri, che si può estendere in profondità bucando i livelli, passando da una regione all’altra dell’inconscio, con un meccanismo di sogno dentro al sogno dentro al sogno, come le scatole cinesi. Tutto torna, pur nella diversità (e dovresti dirne molte per essere precisa), ma anche lì, come in Yeats, è essenziale un grado di lucidità – il grado, forse, dell’artista che crea padroneggiando la tecnica, modellando la forma, imprimendo uno stile, ponendo le basi, dunque, per la creazione di una patria possibile e poi di un Paese, dandogli le fondamenta, così come fece Yeats con la letteratura e il teatro irlandesi (insieme a Lady Augusta Gregory e a John Synge) capaci di scatenare l’impulso grande per la nascita dell’Eire (Copioli ne parla nell’ultimo capitolo, utile a chiunque voglia indagare e approfondire un po’ di storia europea, perché «la vita di Yeats combaciò con la sua epoca» scrive «era nel suo kairòs», così come l’amore infelice per Maud Gonne).

Hai pensato tanto a cosa dire di un libro così straordinario, e alla fine hai deciso che venisse quanto doveva, nella consapevolezza che quest’opera/opus – accostata da Silvio Perrella a un caleidoscopio (sono infinite le combinazioni e gli stupori a cui chiama) – sia quanto di più vicino al compito per eccellenza della letteratura. Rosita Copioli, parlando idealmente di Yeats, lo declina così: «Dalla letteratura Yeats pretendeva che incarnasse il muoversi della vita, così contraddittorio e inafferrabile; che fosse la forma più alta di conoscenza, come nella magia di certi umanisti: filosofia e preghiera, sacrificio e religione ricondotti alle origini: il Drama». Così facendo, Copioli evoca Artaud, la necessità di un teatro alchemico dove le parole sono sortilegi – succede così in Shakespeare, nel tuo Macbeth -, e il Nō giapponese, quella condensazione, la stilizzazione, la crudeltà capace di riportare il mondo alla fonte dei suoi conflitti per poi «rimettere organicamente in discus­sione l’uomo, le sue idee sulla realtà, la sua posizio­ne poetica nella realtà», scrive il regista francese. Qualche pagina dopo, parlando del progetto teatrale incentrato sulla Deirdre di Yeats (l’Elena d’Irlanda) che Copioli voleva rappresentare in Italia per il cinquantenario della morte del poeta, afferma: «In realtà la mia Elena corrispondeva alle drammatizzazioni delle figure d’anima, di cui Yeats mi forniva in quegli anni dislocazioni potenti. Spostavo su Yeats, e ne assorbivo, esperienze dolorose che non potevo affrontare in modo diretto perché per me erano intollerabili. Probabilmente la letteratura fa sempre così. I libri ci fanno da medium e da specchi, quando non possiamo sopportare ciò che ci sta accadendo. Diventano parte di noi, e quando li leggiamo, ne proviamo emozioni, ne scriviamo, non facciamo altro che pensare a noi stessi, scrivere di noi stessi. Di sicuro tutto questo era accaduto anche a Yeats. Così si formavano continue rifrazioni di esperienze altrui e nostre. Una continua teatralizzazione».

Che altro puoi dire di questo libro che spalanca le galassie del sensibile e dell’invisibile?

Nulla, se non leggerlo e rileggerlo, farti contaminare, lasciarlo agire per osmosi, e ricordare l’opera generosa di traduzione di Copioli (pagine e pagine di poesie), ripercorrerne gli sperdimenti, farti travolgere dall’onda estatica di Yeats, il ricercatore “disposto a rovesciare di continuo ogni posizione acquisita, alla ricerca delle eterne forme dell’unità dell’essere, oltre il mondo mutevole delle antinomie», Yeats il poeta i cui versi sempre risuonano tanto:

Gridate alto

che quando siamo trasportati fuori ritorniamo

come un grande vento che prorompa dal deserto

per rovesciare la mensa; e a quel proposito

stiamo distesi sulla soglia finché il Re

non ci restituisca il diritto antico dei poeti.

William Butler Yeats. Omero in Irlanda Book Cover William Butler Yeats. Omero in Irlanda
Profili
Rosita Copioli
Saggio
Ares
2024
392 p., brossura