E scampaci da Medusa
Di Rossella Pretto
Noi non possiamo calcolare le conseguenze di ciò che facciamo e che chiediamo agli altri di fare. […] Come potevano mai pensare che atti così quotidiani, in fondo insignificanti, li avrebbero portati a un appuntamento decisivo col destino?
È il dubbio che ti assilla, che ti porti dietro dalle frequentazioni shakespeariane, e nessuna bisaccia sul groppone del tempo, alias il dimenticatoio, può sviare la mente dall’umana disgrazia: creature d’un sol giorno siamo – certo – ma anche cieche di fronte alla sorte.
Inutile chiedere all’oracolo, come Edipo, vano interrogare le streghe, lo sa Macbeth, o porre argini alla profezia, l’ha sperimentato Acrisio tramite Danae e Perseo. Ananke è la necessità di cui tutto si compone. Neanche gli dei combattono contro di lei, diceva Simonide della dea che a Corinto condivideva il tempio con Bia, la violenza. Perché è una violenza bella e buona dover coltivare il dubbio perenne se l’azione umana sia frutto di un umano volere o semplicemente predestinata, prevista o pre-sofferta (alla Eliot?).
Nessuno può uccidere Medusa (Bompiani, 2024, pp. 272, euro 17), l’ultimo romanzo di Giuseppe Conte, si confronta con questo. Illude che il mito sia prescrittivo, ma usa e ripensa la figura della Gorgone. Ha comunque le radici ben confitte nella terra del mito, nonostante sia una storia modernissima.
A quella terra però sembra aggiungere un correttivo (non da poco) spostando il focus dalla sofferenza individuale (la sfera tragica dell’umano a confronto col divino), all’impegno (militante e liberamente scelto) verso il prossimo, l’altro da sé che è fratello. È lì, evidentemente, che si gioca la partita decisiva col destino.
Il percorso catartico di questa moderna Medusa – Med/Amedea, domiciliata in Sicilia, tra la città di Catania e l’affocato circondario – ha come cardine e snodo tale apertura verso cui convogliano tensioni e conflitti. Così viene dirottata la carica distruttiva della ragazza (violata da Poseidone, in Ovidio, e qui dall’orrido Vittorio Ventura, creatura del mare/male), mostrandole la possibilità inesausta della vita di contro alla pulsione di morte che le si è installata nel cuore e nel corpo martoriato (per non dire dei capelli e degli occhi, ça va sans dire).
Ananke è sconfitta dall’anelito umano verso la conoscenza e la fratellanza, anelito diretto a favore della causa per le creature che non possono difendersi. Solo l’essere umano può farlo. E deve, dunque!
Un nuovo punto di vista apre il campo, così come successe con la fisica novecentesca. I conti non tornano più. L’archetipo si riattiva ma accogliendo lo scarto di un mito che si dispone, come nel libro precedente del poeta ligure, quale elemento indispensabile della geografia dell’anima, sulla scorta di Hillman, tramite una delle facoltà umane per eccellenza, l’affabulatrice. E così la trama regge, è forte, anche se Conte mira a creare un effetto di straniamento immettendo personaggi in alcuni casi solo sbozzati o con tratti favolistici, come le due sorelle di Med, alla Biancaneve; o la principessa Esmeralda, l’amica bella e forte, orgogliosa al pari di Achille, che come lui conserva una doppia origine, ha i tratti “divini” della madre e del padre rifugge la condizione troppo umana di minorità, accidiosa; lei figlia del dissidio tra una Sicilia gattopardesca e una Russia che ha formato un’aristocrazia moderna e cosmopolita.
E poi c’è la maschera del potere incoercibile, violento: Vittorio Ventura, venuto dal mare come l’onda ingorda del mostro che si getta sulla terra per uccidere Ippolito. Nessuna notazione psicologica può mitigare o giustificare quella sopraffazione, che è forza elementare, preolimpica, spinta al possesso che deturpa la bellezza e la rende amara come un veleno (le serpi tra i capelli di Medusa), potenza che fa credere a chi la esercita che il mare non sia l’infinito ma la spinta a possederlo. Ventura è privo di dimensione spirituale perché l’anima l’ha persa infliggendo abusi alla natura (e se per Conte l’anima è abitata dagli dei, la sua mappatura in quella maschera odiosa è impossibile).
L’altro grande personaggio è la Sicilia, assieme alle creature selvatiche con la loro maestosa bellezza, la forza inumana del vulcano, il deserto delle campagne assolate, qualche albero qua e là, un carrubo, una volpe dalla coda d’argento, un cavallo poderoso, una medusa sbattuta sulla riva. La Sicilia risulta protagonista senza esserlo dichiaratamente. Poche le descrizioni. Eppure l’energia di quella terra è presente e calda. Vibra come vibrano i moti dell’anima. Pulsa come la compassione che accende chi la sa ascoltare perché «l’anima non ha soltanto profondità abissali in sé, è anche contraddittoria e mutevole, palpitante come una superficie marina sotto il soffio di uno scirocco». È una Sicilia bifronte che accasa il mito greco e si apre alle influenze dell’Islam (un altro personaggio è Abdelnur), una regione fatta di eccessi ma anche intessuta con una fede popolare autentica e disperata. «Che cosa può dirsi umano, senza fede, follia, sacrificio, speranza, preghiera?» si chiede Conte in un racconto della sua Sicilia, della terra del padre, scritto per «Studi cattolici». Risponde nel romanzo quando dice che «c’è una felicità fremente in qualunque anche minimo atto di reciprocità, nel capire che l’altro di fronte a noi condivide nel suo sentire quel che proviamo anche noi». Una cosa come la pietà. Quella cosa che spezza le catene di Ananke.
Narratori italiani
Letteratura
Bompiani
2024
272 p., brossura