Alessandro Manzoni e il rurale: un sentimento speciale per la campagna
DiRiccardo Renzi[1]
Perché dedicare un saggio a Manzoni e la campagna? Questo è il naturale interrogativo che verrebbe in mente a chiunque andasse a leggere il titolo del mio articolo. Questo sentimento è però fondamentale e attraversa tutta la produzione manzoniana. Manzoni nacque a Milano, ma lo visse relativamente poco. Subito venne posto a balia a Galbiate e visse gran parte dell’infanzia presso il Caleotto di Lecco. Successivamente passò al collegio di Merate per poi tornare a Caleotto. Dopo la separazione dai genitori, trascorse la maggior parte dell’infanzia lontano da Milano, ove tornò solo per frequentare il collegio superiore. Anche in questo caso va però detto che la sua presenza non fu continuativa, ma marcata da lunghe assenze dovute alle vicende politiche del 1796 che durarono sino al 1799. Frequentò il collegio sostanzialmente sino al 1801 e iniziò a vivere stabilmente in Città, vivendola attivamente. Le vacanze le passava tutte a Caleotto, standoci molto volentieri. Questo lo si evince anche da un noto passo di Fermo e Lucia, nel quale parla di lecco: «La giacitura della riviera, i contorni, e le viste lontane, tutto concorre a renderlo un paese che chiamerei uno dei più belli del mondo, se avendovi passata gran parte dell’infanzia e della puerizia e le vacanze autunnali della prima giovinezza, non riflettessi che è impossibile dare un giudizio spassionato dei paesi a cui sono associate le memorie di quegli anni»[2]. Manzoni volutamente non vuole omettere la notizia che in quel territorio ha passato gran parte dell’infanzia. Quando scrive, nel 1818, quelli ormai sono ricordi lontani, poiché il Caleotto era stato venduto e non lo frequentava più dal lontano 1804. Ma quel ricordo, seppur lontano, era vivissimo in lui, indelebile e incancellabile. Memorie, ricordi, impressioni e rimembranze lavorarono autonomamente, però provenendo da un terreno fertilissimo al Manzoni suscitano emozioni uniche e irripetibili. Tra il 1801 e il 1805, Manzoni vive molto attivamente la vita milanese, dalla Seconda Cisalpina sino alla nascita del Regno Italico[3]. In una lettera confidenziale a Fauriel del 19 marzo 1807, scrisse che in quegli anni vide «lo spettacolo orribile della corruzione del suo paese», vergognandosi di averci preso un po’ parte[4]. Nonostante abbia vissuto così attivamente la Città in quegli anni, non troncò mai il legame con la campagna. Seppur più sporadicamente continuò a frequentare Caleotto anche dopo aver terminato il collegio. Inoltre la nascita dell’amicizia con Monti, lo legò ancora più profondamente alla campagna e da questo originò la stesura dell’idillio Adda[5]. La forma di tale idillio è alquanto particolare, poiché è una prosopopea composta da 85 endecasillabi sciolti, che in sostanza formano una lettera in versi. Questa è una lettera immaginaria, nella quale il fiume Adda invita a Lecco l’amico Monti. Gli ricorda come altri grandi intellettuali, come il Parini, ivi avevano soggiornato e lo invita a comporre qualcosa durante questo periodo di soggiorno. Nuovamente il Manzoni dimostra di conoscere a menadito quel territorio. Tale idillio ha avuto una scarsa fortuna critica, non fu apprezzato né subito, né in seguito. Va però detto che siamo nel 1803 e quando Manzoni scrive ha solo diciotto anni. La composizione fu redatta entro la metà del settembre del 1803 e spedita con la lettera del 15 settembre a Vincenzo Monti, il quale rispose declinando l’invito a soggiornare presso il Caleotto per incomodi di salute e per l’impegno nella traduzione delle Satire di Persio. L’autografo della lettera manzoniana recante l’idillio, appartenuto a Giambattista Pagani e a lungo smarrito, è oggi conservato alla Biblioteca Queriniana di Brescia[6]. Un secondo autografo, di cui pure si persero a lungo le tracce, è custodito presso la Biblioteca Ambrosiana[7] e trasmette una forma testuale successiva a quella spedita a Monti, con migliorie e l’aggiunta del v. 50. L’idillio fu pubblicato postumo nel 1875 da Giuseppe Gallia[8] secondo la versione dell’autografo custodito alla Queriniana, insieme alla lettera di Manzoni e alla responsiva del Monti. L’autografo della
Biblioteca Ambrosiana, invece, fu studiato prima del suo smarrimento da Gottifredi nel 1922 e da Lesca nel 1927, che su di esso condussero le loro edizioni.
Tornando al rapporto di Manzoni con la campagna, questo nell’idillio lo si evince chiaramente:
«Diva di fonte umil, non d’altro ricca
Che di pura onda e di minuto gregge,
Te, come piacque al ciel, nato a le grandi
De l’Eridano sponde, a questi ameni
Cheti recessi e a tacit’ombra invito.
Non feroci portenti o scogli immani,
Nè pompa io vanto d’infinito flutto
O di abitati pin; nè imperïoso
Innalzo il corno, a le città soggette
Signoreggiando le torrite fronti;
Ma verdi colli e biancheggianti ville,
E lieti colti in mio cammin vagheggio,
E tenaci boscaglie a cui commisi,
Contro i villani d’aquilone insulti,
Servar la pace del mio picciol regno
e con Febo alternar l’ombre salubri.
Nè al piangente colono è mio diletto
Rapir l’ostello e i lavorati campi,
Ad arricchir l’opposta avida sponda,
Novo censo al vicin; nè udir le preci
Inesaudite e gl’imprecanti voti
De le madri, che seguono da lunge,
Con l’umid’occhio e con le strida il caro
Pan destinato a la fame de’ figli,
E la sacra dimora e il dolce letto.
Sol talor godo con l’innocua mano
Piegar l’erbe cedenti, e da le rive
Sveller fioretti, per ornarmi il seno
E le trecce stillanti. Nè gelosa
Tolgo a gli occhi profani il mio soggiorno,
Ma dai tersi cristalli altrui rivelo
La monda arena. Anzi sovente, scesi
Dai monti Orobj, i Satiri securi
Tempran nel fresco mio la sìria fiamma,
Col piè caprino intorbidando l’onda»[9].
Di questa prima parte del componimento non bisogna porre attenzione solamente alla conoscenza del territorio e all’abilità descrittiva dell’autore, ma anche all’amore con la quale descrive ogni minuzia. Questi non sono versi scritti tanto per scrivere. Ai critici sfugge totalmente il profondo sentimento di piacere del giovane Manzoni nell’immedesimarsi nell’Adda, il quale corre su territori che egli tanto ama. Tale idillio va contestualizzato nel momento di vissuto dell’autore, il quale per sfuggire alle delusioni cittadine cerca un ritorno alla felicità rurale della giovinezza.
[1] Istruttore direttivo della Biblioteca civica “Romolo Spezioli” di Fermo.
[2] A. Manzoni, Fermo e Lucia, a cura di F. Ghisalberti, Milano, Mondadori, 1954, p. 20.
[3] C. Mancin, Il Delta del Po: dalla dominazione francese all’unità d’Italia (1797/1866), Taglio di PO, Diemme, 1993, p. 27.
[4] A. Manzoni, Lettere, a cura di C. Arieti, Milano, Mondadori, 1970, I, p. 34.
[5] C. Varese, Il Manzoni e la poetica dell’idilio, in La Rassegna della letteratura italiana, a. 65, n. 2(1961), p. 21.
[6] Brescia, Biblioteca Queriniana, Autografi, cart. 7, fasc. VI.
[7] Milano, Biblioteca Ambrosiana, S.P.II.127.a.I.
[8] G. Gallia, Ricordo di G. B. Pagani, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», pp. 89-107.
[9] https://it.wikisource.org/wiki/Adda
L’immagine di copertina, presa da wikipedia, è un ritratto di Manzoni di Francesco Hayez, Pinacoteca di Brera