Calcolare la longitudine. Storia e implicazioni
Di Roberto Cocchis
Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 1707, la flotta navale dell’ammiraglio Shovell, di rientro in patria dopo una vittoriosa schermaglia con i francesi al largo di Gibilterra, andò a schiantarsi contro gli scogli davanti alle isole Scilly, primo avamposto del Regno Unito quando si risale l’Atlantico da Sud. Andarono perse quattro navi su cinque, e morirono oltre duemila uomini, compreso l’ammiraglio.
La tragedia si consumò sia perché, al buio e nella nebbia fitta, nessuno vide gli scogli, sia perché gli strumenti di bordo del tempo permettevano solo di stimare la propria posizione, senza poterla determinare con esattezza. In particolare, era impossibile calcolare la longitudine, ossia la propria posizione in senso Est-Ovest.
Non si trattava del primo disastro subito dalla Royal Navy per questa ragione, e il Regno Unito, che faceva della supremazia sui mari l’elemento fondamentale della propria potenza, non poteva rimanere a guardare aspettandone altri. Dopo una serie di discussioni, il Parlamento approvò nel 1714 la legge chiamata Longitude Act, con cui venne stanziata la somma (per l’epoca favolosa) di 20.000 sterline per premiare chiunque fosse riuscito a inventare un metodo pratico ed efficace per determinare con esattezza la longitudine.
Si scatenò allora, in tutta la nazione, una gara tra scienziati, inventori e pazzi a chi sarebbe riuscito ad accaparrarsi il premio. Fu una gara destinata a durare a lungo, in cui non mancarono né passi falsi né colpi bassi.
Il calcolo della longitudine è molto più complesso di quello della latitudine, che pure non è facilissimo. Per calcolare la latitudine, occorre fare il punto a mezzogiorno, misurando l’altezza del sole sull’orizzonte con uno strumento detto sestante e poi confrontare il risultato con delle tavole che riportano l’altezza del Sole nei differenti punti della Terra a seconda dei giorni dell’anno. Può sembrare una prassi laboriosa, ma questa conoscenza ha sempre fatto parte del bagaglio formativo di chiunque fosse destinato a comandare una nave.
Viceversa, per calcolare la longitudine, non si può godere della presenza di un punto di riferimento così importante come il Sole.
In quel periodo, nel mondo scientifico, era molto attiva la comunità degli astronomi, che grazie al perfezionamento degli strumenti raggiungevano una conquista dietro l’altra. In particolare, nel 1676, il danese Ole Roemer, studiando il moto dei maggiori satelliti di Giove (quelli che chiamiamo galileiani perché scoperti da Galileo), si rese conto che la velocità della luce non è infinita, come si era creduto in precedenza, e provò a determinarla, sbagliando per difetto di poco.
Intorno a Giove orbita infatti quello che potrebbe essere considerato un piccolo sistema planetario e le eclissi di questi satelliti (le occasioni in cui scompaiono dietro il pianeta o ricompaiono alla vista dell’osservatore terrestre) seguono ritmi ben precisi.
Ci fu uno studioso francese, monsieur de Saint-Pierre, che provò a utilizzare un metodo basato sulla posizione delle lune di Giove per determinare la longitudine sulla Terra, visto che all’osservazione, nello stesso momento, Giove e i suoi satelliti appaiono in posizioni diverse se osservati da punti diversi della Terra. Saint-Pierre provò a offrire i suoi servigi al re inglese Carlo II, ma il suo metodo fu scartato dall’astronomo reale John Flamsteed, convinto che fosse più opportuno lavorare sulla nostra Luna per ottenere un metodo più pratico. Per fare questo, però, occorreva prima determinare con esattezza la posizione della Luna e quindi disporre di mappe stellari più dettagliate e precise di quelle esistenti: Flamsteed impiegò tutta la sua vita a realizzarle, senza avere mai il tempo di dedicarsi seriamente al problema della longitudine.
Un altro importante filone di ricerca era quello di chi pensava di utilizzare degli orologi di precisione, partendo dall’assunto che l’ora solare cambia a seconda della longitudine e, perciò, confrontando l’ora segnata su due orologi, uno regolato di volta in volta sul tempo locale e l’altro lasciato sull’orario del luogo di partenza, si potesse conoscere la differenza di longitudine con la massima precisione.
Uno scienziato olandese, Christiaan Huygens, già nel 1660 degli orologi a pendolo che sembravano prestarsi benissimo a questo compito. Tuttavia, questi orologi funzionavano bene solo quando il mare era calmo. Quando il mare era agitato, la velocità di oscillazione dei pendoli si sballava e gli orari riportati apparivano notevolmente falsati.
Huygens non si arrese e cercò di elaborare qualche miglioramento in grado di eliminare il problema. Così, nel 1675, brevettò in Francia la molla a spirale, che emancipava gli orologi dal meccanismo del pendolo. Purtroppo per lui, nello stesso anno, Robert Hooke fece la stessa cosa in Regno Unito. Ne seguì una lunga e virulenta controversia, che non ha fatto bene alla fama postuma né dell’uno né dell’altro.
La molla a spirale risolveva alcuni problemi, ma non tutti. Era sicuramente un meccanismo molto meno sensibile del pendolo agli effetti del beccheggio e del rollio, ma non ne era neanche del tutto immune. Senza contare i danni che gli sbalzi di temperatura e la salsedine avrebbero potuto provocare a un ingranaggio così delicato, che oltretutto necessitava anche di una periodica lubrificazione.
Fu probabilmente per queste ragioni che, mentre veniva messo a punto il Longitudine Act, l’anziano ma sempre autorevole Isaac Newton sconsigliò al suo pupillo Edmund Halley di provare quel sistema. Newton, come del resto lo stesso Halley, era convinto che un sistema basato su osservazioni astronomiche fosse molto più pratico, preciso e sicuro.
In ogni caso, a partire dalla promulgazione della legge, la commissione costituita ad hoc (che nei 114 anni successivi avrebbe visto l’avvicendamento di cinque generazioni di membri e avrebbe finanziato molti altri progetti di ricerca) fu letteralmente assediata da una miriade di proposte e invenzioni, nella maggior parte sgangherate o francamente assurde. Per decenni, i libellisti satirici si sarebbero scatenati nel mettere alla berlina le idee più fantasiose (compreso Jonathan Swift, che accenna alla questione in I viaggi di Gulliver). A metà tra gli umoristi e gli inventori si collocò un certo Jeremy Thacker, che mentre prendeva in giro gli altri realizzò un primo rudimentale modello di cronometro (si ritiene che Thacker abbia inventato questo termine per scherzo). In realtà, il cronometro di Thacker difettava parecchio in precisione, ma presentava una serie di interessanti novità, come la calotta sotto vuoto in vetro che proteggeva il dispositivo dagli effetti delle variazioni di pressione e umidità e un sistema di appaiamento delle aste di caricamento che permetteva al cronometro di funzionare anche mentre veniva caricato. Il difetto del cronometro di Thacker stava invece nella sua sensibilità alle variazioni di temperatura, che inducevano negli ingranaggi delle dilatazioni o dei restringimenti capaci di far segnare lo scorrere dei secondi in modo molto diverso.
A questo punto entra in scena l’enigmatico eroe di questa vicenda. Enigmatico perché, non essendo di natali illustri, le sue biografie ci raccontano troppo poco. Ma almeno un dato è certo: John Harrison, nato nello Yorkshire il 24 marzo 1693, non era un orologiaio, ma un falegname. E, per quanto se ne sa, non vide un orologio in funzione fino all’età adulta. A quel tempo gli orologi erano dispositivi costosissimi e nella zona in cui crebbe non era attivo alcun orologiaio. Ma con ogni probabilità ne lesse su qualcuno dei tanti libri tecnico-scientifici che letti, meditati e annotati dopo la sola istruzione elementare, rappresentarono la sua formazione.
Harrison costruì il suo primo orologio nel 1713, ed essendo falegname lo realizzò in legno, tranne alcune piccole parti in ottone e in acciaio. La robustezza del legno di quercia utilizzato ha permesso al dispositivo di arrivare ancora intatto ai giorni nostri. Di altri due orologi in legno da lui costruiti negli anni successivi, ci sono arrivati solo i meccanismi interni.
Harrison era bravissimo nei calcoli di qualsiasi tipo, ma non molto portato per esprimersi in modo chiaro, né a voce né per iscritto, e questo limite lo avrebbe molto penalizzato in seguito, specie considerando che si occupò di questioni già di per sé tutt’altro che semplici da spiegare.
La fama di Harrison come orologiaio raggiunse comunque le orecchie di un aristocratico, Sir Charles Pelham, che lo ingaggiò per farsi costruire un orologio su una torre all’interno dei propri possedimenti. L’orologio di Brocklesby Park, completato nel 1722, è ancora funzionante. Dalla sua struttura si può apprezzare la perizia di Harrison riguardo i legni. Le parti che normalmente andrebbero lubrificate sono realizzate in lignum vitae, una varietà di legno tropicale che trasuda spontaneamente una sostanza grassa.
Harrison, che ebbe due mogli e tre figli (dei quali uno solo, William, sarebbe sopravvissuto, diventando un suo fedele collaboratore), operò a lungo in tandem con il fratello James, nato nel 1704. Due innovativi orologi a pendolo risalenti al 1725 e al 1727 risultano firmati da James Harrison, ma è difficile immaginare che anche John non ci avesse messo mano. In entrambi questi orologi, che venivano tarati misurando il tempo attraverso accurate osservazioni astronomiche, sono presenti innovazioni importanti: il pendolo costituito da una griglia di ottone e acciaio (due leghe che rispondono in modo opposto alle variazioni di temperatura, in modo che le alterazioni dell’una compensino quelle dell’altra) e lo scappamento a cavalletta, che riduceva a livelli trascurabili l’attrito tra le parti.
Questi orologi, messi nelle condizioni più difficili, potevano sgarrare al massimo di un secondo in un mese. Gli orologi costruiti in metallo dai migliori artigiani londinesi, nelle stesse condizioni, arrivavano a perdere anche un minuto al giorno.
Dopo questo importante apprendistato, nel 1730 Harrison si presentò finalmente a Londra con la sua proposta di realizzare un cronometro di precisione adatto ai viaggi per mare. L’unico membro della Commissione di cui conosceva il nome era Edmund Halley, che da poco era subentrato al defunto Flamsteed nella carica di astronomo reale. Halley stava già lavorando a un metodo astronomico basato sulle distanze lunari, ma trovò ugualmente interessante il progetto di Harrison e inviò l’artigiano dal maggiore orologiaio inglese del tempo, George Graham, tra l’altro membro della Royal Society. Graham restò talmente colpito dalla perizia di Harrison che ottenne per lui un generoso prestito a condizioni estremamente favorevoli, perché potesse dedicarsi al lavoro sul cronometro senza distrazioni.
Il primo frutto del lavoro di Harrison fu un orologio diversissimo da tutti quelli mai visti in precedenza, battezzato H-1. Harrison stava lavorando su di esso già dal 1728, ma lo avrebbe terminato solo nel 1735. Gli ingranaggi erano in legno, ma aste e bilancieri erano in ottone. La disposizione dei pezzi, all’esterno, faceva pensare più a una nave che a un orologio. La facciata presentava quattro diversi quadranti: uno per le ore, uno per i minuti, uno per i secondi e uno per i giorni del mese. Chiuso in una teca cubica di vetro smerigliato dal lato lungo 130 centimetri, il dispositivo pesava trentaquattro chili.
La Commissione, visto anche l’avallo di Graham e di Halley, approvò l’invenzione e chiese alla Royal Navy di testarla. L’occasione si presentò nel 1736, con il viaggio della HMS Centurion, diretta a Lisbona. Fu una traversata molto travagliata: Harrison, imbarcato per curare il funzionamento dell’orologio, soffrì molto il mal di mare; il capitano Proctor, con cui l’inventore aveva stabilito un rapporto di massima stima reciproca, morì all’improvviso subito dopo l’arrivo a Lisbona. Per tornare a casa insieme all’orologio, Harrison dovette imbarcarsi su un’altra nave inglese, la HMS Oxford, comandata da un certo Roger Wills. Questo, ebbe l’occasione di verificare la precisione dell’orologio di Harrison, quando il viaggio era quasi al termine. La prima costa inglese incontrata, secondo le stime di Wills, era il promontorio di Start, vicino a Dartmouth. Secondo i calcoli di Harrison, invece, era la penisola di Penzance, sessanta miglia a ovest di Start.
Ovviamente, aveva ragione Harrison.
Tuttavia, Harrison non era del tutto soddisfatto dei risultati del suo orologio e chiese due anni di tempo per perfezionarlo prima di testarlo su una rotta più lunga. Gli fu concesso un altro sostanzioso prestito, ma le condizioni stavolta riportavano che il nuovo orologio, una volta testato con successo, sarebbe diventato di proprietà esclusiva della Royal Navy.
In realtà, il nuovo orologio, battezzato H-2, pur iniziato già nel 1737, fu pronto solo nel 1740. Era più piccolo ma più pesante (trentanove chili) dell’H-1. Sebbene superasse brillantemente tutti gli stress test cui fu sottoposto a terra o su piccole imbarcazioni, Harrison decise di non farlo imbarcare per alcun lungo viaggio e di riprendere il lavoro per un modello ancora più perfezionato.
L’incertezza di Harrison si comprende quando si va a leggere a quali condizioni sarebbe stato riscosso il premio di 20.000 sterline. Questo spettava per intero solo se il metodo avesse determinato la longitudine con uno scarto massimo di mezzo grado (equivalente, all’altezza dell’Equatore, a un errore di circa cinquantacinque chilometri). Il premio scendeva a 15.000 sterline se lo scarto massimo era di due terzi di grado e a 10.000 se era di un grado. Oltre un grado, nessun progetto avrebbe potuto essere premiato.
Nel frattempo, però, Halley non se ne stette con le mani in mano. Il miglioramento delle carte stellari, grazie soprattutto al lavoro del tedesco Tobias Mayer, permetteva di ottenere risultati sempre più precisi con il metodo delle distanze lunari. Halley spinse i suoi calcoli e le sue verifiche fino a ottenere il risultato desiderato, ossia la determinazione della longitudine con approssimazione inferiore al mezzo grado. Tuttavia, il metodo delle distanze lunari era estremamente laborioso e richiedeva calcoli che solo dei matematici esperti avrebbero potuto svolgere.
Il lavoro di Harrison, però, sembrò impantanarsi. Tra l’H-2 e il successivo H-3 passarono quasi diciannove anni. Un tempo enorme, se si pensa che Harrison lo trascorse occupandosi solo di questo manufatto. Se per i primi due orologi marini si era avvalso ancora della collaborazione del fratello, per il terzo il suo principale collaboratore fu il figlio William. Il risultato fu un dispositivo composto da oltre 750 parti, con alcune innovazioni in uso ancora oggi: ad esempio la lamina bimetallica (che sostituisce la griglia e compensa istantaneamente le variazioni di temperatura: oggi si usa nei termostati) e i cuscinetti a sfera come congegno anti-attrito.
L’H-3 era alto sessantasei centimetri e largo trentatré, per un peso di ventisette chili. Un grande passo avanti rispetto a prima, ma Harrison non era ancora soddisfatto.
Harrison non aveva ancora sottoposto l’H-3 alla commissione, quando nel 1755 accadde qualcosa che gli aprì gli occhi su una nuova prospettiva. Un altro orologiaio suo amico, John Jeffreys, gli regalò un orologio da tasca realizzato apposta per lui e dotato di lamina bimetallica. Harrison, che era abituato a orologi da tasca poco precisi, utilizzandolo, si rese conto che la lamina bimetallica funzionava benissimo anche in orologi di piccole dimensioni. L’orologio di Jeffreys sembrava non risentire affatto delle variazioni di temperatura. Infatti, molto tempo dopo, durante la Seconda Guerra Mondiale, sotto i bombardamenti tedeschi, resistette perfino all’incendio del locale in cui era conservato all’interno di una cassaforte.
Harrison decise quindi di unire la tecnologia del suo H-3 a quella dell’orologio di Jeffreys e, nel giro di soli due anni, nel 1759, mise a punto il suo capolavoro, l’H-4. Questo aveva l’aspetto di un normale orologio da taschino, anche se è più grande e pesa 1300 grammi. Anche se la cassa e le parti grandi erano in ottone come negli orologi precedenti, i meccanismi interni erano stati miniaturizzati utilizzando pietre preziose come diamanti e rubini, adeguatamente tagliati, per i dispositivi anti-attrito.
La scelta di miniaturizzare gli ingranaggi comportava, tuttavia, la rinuncia a qualcuna delle migliori qualità degli orologi precedenti. Ad esempio, l’H-4 necessitava di lubrificazione e quindi anche di manutenzione periodica per rimuovere i residui di olio esausto. Le stesse parti meccaniche andavano soggette a usura e quindi andavano sostituite ogni qualche tempo.
Ma tutto questo non rappresentava un problema tale da rendere scomodo l’uso del dispositivo.
A questo punto, c’era solo da riscuotere il premio.
Ma Harrison aveva un rivale. Alla scomparsa di Halley, il titolo di astronomo reale era passato a James Bradley. Questi aveva un pupillo, Nevil Maskelyne, con cui aveva ripreso gli studi di Halley sulle distanze lunari. Nel 1761 Maskelyne fu inviato da Bradley a Sant’Elena per una spedizione scientifica che gli permise di compiere importanti osservazioni astronomiche e di testare ripetutamente il metodo delle distanze lunari, sempre con successo.
Da quel momento in poi, Bradley diventò il principale sponsor di questo metodo e fece il possibile per ostacolare il lavoro di Harrison. I test in mare aperto con l’H-3 furono rinviati più volte, prima che William Harrison potesse portare il dispositivo fino alla Giamaica per collaudarlo. Intanto, però, il padre aveva messo a punto anche l’H-4, per cui i due Harrison decisero di testare entrambi gli orologi nello stesso viaggio. Ma anche questa soluzione incontrò un sacco di intoppi e cavilli burocratici, dietro i quali c’era sicuramente Bradley, onnipotente membro della Commissione. Il fatto che la sua posizione comportasse un enorme conflitto d’interesse, in quel periodo, sembrava non importare a nessuno.
Quando fu finalmente possibile partire, nel novembre 1761, Wiliam aveva con sé solo l’H-4. Harrison aveva deciso di puntare tutto solo sulla sua ultima creatura. A bordo della HMS Deptford, l’orologio era custodito in una scatola di legno chiusa da quattro lucchetti. William aveva una sola delle chiavi, mentre le altre erano affidate al capitano Digges, al suo secondo Seward e al signor Lyttleton, governatore designato della Giamaica e passeggero più illustre del viaggio. Un astronomo lasciato a Portsmouth e un altro imbarcato sulla stessa nave, furono incaricati di stabilire l’ora esatta di partenza e di arrivo. Seguendo le indicazioni del suo orologio, William previde l’arrivo a Madera, dove la nave doveva fare rifornimento, con molto anticipo rispetto ai calcoli del capitano.
All’arrivo, dopo una navigazione di ottantuno giorni, risultò che l’H-4 aveva perso solo quattro secondi.
Durante il ritorno a bordo dell’HMS Merlin, la navigazione fu invece funestata da ogni sorta di tempeste, con onde molto alte che inzuppavano qualsiasi cosa si trovasse a bordo. Con molta fatica, William riuscì a mantenere l’orologio asciutto e, alla fine del viaggio, risultò una perdita ancora accettabile di meno di due minuti.
Ce n’era abbastanza da assegnare il premio senza ulteriori esitazioni, ma la Commissione, manovrata da Bradley e Maskelyne, frappose ogni genere di ostacolo al riconoscimento. Si misero in dubbio i dati sulla posizione del punto in Giamaica nel quale era stata determinata l’ora di arrivo. Si accusò William di non aver compiuto una serie di osservazioni astronomiche del tutto superflue e che, in ogni caso, non toccavano a lui.
Alla fine, nell’agosto 1762, il premio non fu assegnato e Harrison ricevette 1.500 sterline quale riconoscimento per una generica “utilità pubblica” della sua invenzione.
I lavori della Commissione erano stati funestati da due lutti. Negli ultimi mesi erano morti il cartografo astrale Mayer e l’astronomo reale Bradley. Il posto di quest’ultimo era stato preso da un certo Nathaniel Bliss, che era ancora più schierato di Bradley a favore delle distanze lunari.
Quando, nel marzo 1764, William riuscì a imbarcarsi di nuovo con l’H-4 per un nuovo e più difficile test, un viaggio fino alle Barbados sull’HMS Tartar, Bliss spedì sul posto quello che avrebbe dovuto essere un arbitro imparziale della contesa, mentre invece non lo era affatto: Nevil Maskelyne, che da tempo rivendicava il premio. Perfino il capitano del Tartar, John Lindsay, una volta scoperto il dettaglio, protestò per il conflitto d’interesse.
Tuttavia, nulla riuscì a mettere in dubbio la perfetta efficienza dell’H-4.
La Commissione dovette prendere atto della realtà e offrì a Harrison metà del premio (10.000 sterline), ma solo a patto che consegnasse tutti i suoi orologi e spiegasse dettagliatamente ogni aspetto dei suoi meccanismi. L’altra metà avrebbe potuto essergli consegnata solo se fosse riuscito a realizzare una copia identica dell’H-4, dimostrando la sua riproducibilità.
Mentre succedeva questo, Bliss morì improvvisamente e il suo posto come astronomo reale fu preso proprio da Maskelyne. Il quale, indifferente ai risultati di Harrison, indirizzò tutta l’attenzione della Commissione sul metodo delle distanze lunari.
A Harrison non restava che accettare la proposta della Commissione, sia pure obtorto collo. Dal 14 al 20 agosto 1765 ospitò nella sua casa londinese di Red Lion Square un gruppo di esperti (matematici, orologiai, un fabbricante di strumenti di precisione e l’onnipresente Maskelyne) per smontare davanti a loro l’H-4 e spiegare la funzione di ogni singolo pezzo.
Anche se gli esperti sottoscrissero un documento in cui si dichiaravano convinti dalle spiegazioni di Harrison, la Commissione gli tirò un altro colpo basso: pretese la consegna sia dell’H-4 sia dei suoi progetti, per custodirli mentre Harrison lavorava alle copie che gli erano state richieste. Praticamente, Harrison avrebbe dovuto lavorare a memoria.
In questo periodo, Harrison fu ripetutamente contattato dai francesi perché lavorasse per conto loro, ma rifiutò di farlo, I francesi appresero poi qualcosa da un altro orologiaio inglese, Thomas Mudge, che aveva avuto occasione di visionare l’H-4. In realtà non aveva capito tutto, ma comunque abbastanza da permettere anche ai francesi di costruire i loro orologi marini,
La perdita del know-how non sconvolse nessuno. Ormai la Commissione era orientata a dare più credito al metodo delle distanze lunari. Maskelyne, che la dominò fino alla sua scomparsa nel 1811, cominciò, a partire dal 1766, la pubblicazione di un Almanacco delle effemeridi nautiche ed astronomiche (le effemeridi sono tabelle contenenti i valori, in un dato intervallo di tempo, di grandezze astronomiche variabili), che esce ancora oggi, anche se il metodo di Maskelyne è stato abbandonato durante il XIX secolo.
Nello stesso anno, Maskelyne ottenne il sequestro di tutti gli orologi di Harrison, con la scusa di sottoporli a test nel Royal Observatoty di Greenwich. Harrison aveva conservato con la massima cura l’H-1, l’H-2 e l’H-3. Si rifiutò di seguire il loro smontaggio quando Maskelyne si presentò a casa sua con l’ordine di consegna e non assistette alla scena in cui dei maldestri operai fecero cadere per strada l’H-1 cercando goffamente di issarlo su un carro. Il viaggio fino a Greenwich fu compiuto su strade sconnesse su ruote senza sospensioni.
Maskelyne condusse improbabili test simulati sulla precisione degli orologi, arrivando alla conclusione che erano molto imprecisi. Tuttavia, dovette ammettere che tali dispositivi potevano essere utili nei periodi di novilunio, quando era impossibile determinare la distanza lunare perché la luna non è illuminata e risulta quindi invisibile,
Harrison intanto doveva vedere come ricostruire il suo H-4, senza più avere l’originale a disposizione e senza i relativi progetti. Questi, peraltro, erano stati utilizzati per realizzare una pubblicazione, di cui la Commissione gli inviò una copia.
Per dimostrare la riproducibilità del dispositivo, Harrison si limitò a supervisionarne il lavoro, affidato a un altro brillante orologiaio, Larcum Kendall, ex assistente di John Jeffreys e già membro del gruppo che aveva valutato gli orologi di Harrison nell’agosto del 1765.
Il nuovo orologio, battezzato K-1, fu pronto nel 1770 e la Commissione lo valutò pari all’H-4. Anzi, decise di utilizzarlo nel viaggio di prova, la circumnavigazione del mondo della spedizione di James Cook, al posto dell’originale.
Intanto Harrison non se n’era stato con le mani in mano e aveva costruito un nuovo orologio, che aveva quasi tutte le caratteristiche dell’H-4 ma era un po’ più grande e pesante, l’H-5.
Mentre l’H-5 veniva testato in tutti i modi, a volte dando risultati inaspettati (durante un test al castello di Windsor alla presenza del re Giorgio III, mostrò inizialmente una serie di errori piuttosto gravi, che però scomparvero quando fu allontanato dalla collezione di calamite del sovrano, che evidentemente disturbavano il funzionamento dei suoi pezzi metallici con la loro attrazione), il K-1 seguì Cook in tutti i viaggi che lo portarono a essere considerato il più grande navigatore del suo tempo e, forse, di tutti i tempi.
Cook, nato il 27 ottobre 1728 nello Yorkshire e quindi conterraneo di Harrison, aveva molto in comune con l’orologiaio. Di origini modeste, dopo la sola istruzione elementare si era fatto da solo una vasta cultura scientifica mentre lavorava da commesso in un emporio che vendeva anche libri. La sua carriera di navigatore era partita dalla gavetta, a bordo di navi fluviali delle quali era presto diventato comandante. Passato alla Royal Navy, era stato impiegato a lungo in qualità di cartografo, sfruttando la sua conoscenza della trigonometria e della topografia. In questi campi era talmente preciso che i suoi rilievi geografici sono stati corretti solo nel tardo XX secolo grazie ai dati dei satelliti artificiali.
Promosso sottufficiale, fu posto alla guida, ma non al comando, di diverse spedizioni scientifiche. Non essendo di origine aristocratica, non poté mai accedere ai gradi di ufficiale e, almeno formalmente, si trovò sempre sotto il comando di qualcun altro, di solito un membro della Royal Society a capo della spedizione. Ma, di fatto, nelle spedizioni cui partecipò, decise sempre tutto lui, e gli altri si fidarono ciecamente delle sue decisioni.
Cook scrisse delle relazioni entusiaste del K-1, definendolo “il nostro fidato amico Orologio” o “la nostra guida infallibile”. Lo volle con sé anche nei viaggi successivi, compreso l’ultimo, terminato tragicamente con la sua uccisione sulla spiaggia di Kealakekua, nella Hawaii, da parte di un gruppo di indigeni, il 14 febbraio 1779. Secondo una leggenda riportata da Dava Sobel, biografa di Harrison dalla scrittura piacevolissima ma spesso incline a citare delle leggende senza averle verificate, il K-1, lasciato nella cabina di Cook, si fermò improvvisamente nel momento in cui l’esploratore fu ucciso.
La testimonianza di Cook avrebbe dovuto radere al suolo ogni ostacolo frapposto sulla strada che conduceva Harrison al premio previsto dal Longitude Act. Invece, sempre aizzata da Maskelyne, la Commissione continuò a riservare all’invenzione soltanto riconoscimenti parziali, approfittando di ogni occasione per ingigantirne i difetti e pretendendo prove sempre più complesse.
Nel 1773, Harrison rinunciò a combattere con la Commissione e decise di presentare una petizione direttamente al governo. Questo, poiché l’inventore era sostenuto dal re, fece approvare dal parlamento un provvedimento che concesse a Harrison un “compenso” di 8.750 sterline. Era quasi l’importo mancante del premio, ma non era il premio, che restava non assegnato.
Né lo fu mai, perché contemporaneamente la Commissione promulgò un regolamento sui collaudi talmente rigido e stringente che nessun apparecchio sarebbe riuscito a superarli. A redigerlo, era stato soprattutto Maskelyne.
Harrison morì il 24 marzo 1776. Dopo di lui, altri valenti orologiai inglesi costruirono cronometri marini sempre più perfezionati, come quelli di Kendall, Mudge e John Arnold, che diventò talmente bravo da realizzarne centinaia. Tutti, prima o poi, si trovarono in conflitto con il solito Maskelyne che, una volta, con la scusa di testarlo, ruppe un raffinato orologio realizzato da Mudge. Il figlio di Mudge, che era avvocato, intentò causa alla Commissione, fino a costringerla a pagare alla famiglia dell’orologiaio 3.000 sterline di risarcimento.
Maskelyne è stato anche l’astronomo che ha deciso di porre il meridiano zero in coincidenza di quello che attraversa il Real Observatory di Greenwich. In questo stesso luogo, gli orologi di Harrison furono conservati a lungo, per la verità in modo molto sciatto, abbandonati in un magazzino.
Nel 1920, un giovane ufficiale della Royal Navy, Rupert T. Gould, pieno di interessi culturali e destinato a diventare un autore di opere divulgative di successo, scoprì gli orologi di Harrison, dimenticati da tempo, e restò orripilato dalle condizioni in cui erano. Si dedicò allora a un pazientissimo lavoro di restauro, che terminò solo nel 1935. Spesso dovette ricostruire e far riprodurre dei pezzi che erano andati dispersi, in particolare all’H-1 che si era danneggiato nella caduta occorsa quando era stato sequestrato.
Con immensa soddisfazione, nel febbraio 1933, Gould caricò l’H-1 e lo vide rimettersi in funzione per la prima volta dal giugno 1767.
Gli orologi H-1, H-2 e H-3 si trovano oggi al Maritime Museum di Greenwich, dove funzionano ancora, caricati ogni giorno dai custodi. Quelli H-4 e K-1 si trovano anch’essi lì, ma sono tenuti fermi, protetti da una teca trasparente. L’H-5 è custodito invece nel Clockmakers’ Museum di Guildhall, a Londra, e pure è tenuto fermo.