La Poesia che conta: Poeti iraniani dal 1921 a oggi
Di Rossella Pretto
Hanno una scrittura che incanta – pensi – morbida e sinuosa come una notte araba, Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, un connubio esemplare. Riescono a rendere un’atmosfera e un carattere con pochi tocchi. Lo fanno regalandoci un piccolo capolavoro della letteratura persiana in versi, Poeti iraniani dal 1921 a oggi (Lo Specchio, Mondadori, 2024, 444 pagine, 24 euro).
In questa superba antologia (che trovi abbia anche una veste raffinata – e pensi ai colori della copertina oro e smeraldo), Mardani e Occhetto presentano i dodici poeti più rappresentativi dell’Iran moderno e della sua Poesia Nuova, restituendo bellezza e diversità di voci a un Paese non troppo conosciuto (anche se non sono mancate le proposte) o che molti conoscono per i fiori più splendidi della sua tradizione, come Hāfez e la “trascendente immanenza” del suo pensiero, del XIV secolo, scoperto e portato in Europa da Goethe – che a lui si ispirò per comporre il Divano occidentale-orientale (e che ora ispira anche le recentissime Ore incerte di Silvio Perrella); o come Rumi, del XIII secolo, fondatore dei dervisci rotanti che ci ha lasciato le Poesie mistiche e anche Il libro delle profondità interiori, opera quest’ultima in prosa dove Rumi si presenta come Maestro spirituale; o pensi ancora ad Attar e a Il verbo degli uccelli, quel percorso sapienziale che l’anima ha da compiere per attingere la perfezione divina (e che in maniera un po’ scanzonata rivive ne L’incoronazione degli uccelli nel giardino di Roberto Mussapi).
Libri vertiginosi, tramati di simbolismi dove emergono la rosa, la perla, gli uccelli, il giardino a rendere conto di una profondità che ha bisogno di segni per dirsi e dire l’animo umano.
Il libro di Mardani e Occhetto, ora, dà conto della poesia che si fa in Iran dal 1921. Cento anni che hanno prodotto poeti in grado di aprirsi alla modernità, alle influenze estere, ma anche cantare il Paese e le sue contraddizioni, i suoi rivolgimenti, come la svolta aperta con la Rivoluzione del 1979 e l’attacco iracheno del 1980 capace di accendere il furore patriottico di un popolo che però poi è tornato a interrogarsi e a guardarsi dentro con fare lirico o filosofico.
È nota la triste situazione iraniana, la debolezza attuale, la minaccia. Sappiamo anche che le terre più umiliate hanno concepito e dato alla luce straordinari combattenti per la libertà e la dignità dell’essere umano, creature sapienti e ferite che hanno tratto dalla poesia la forza di resistere. Il poeta, in Iran, è da sempre figura cardine di una società che non si sogna di metterlo al bando con sprezzante condiscendenza. Scrive Mardani che i poeti sono figure venerate «come veri e propri oracoli di pietra capaci ancora, con le loro poesie, di illuminare il presente e predire il futuro. Vi è in Iran una grande considerazione della poesia, ritenuta linguaggio eletto dello Spirito e della cultura ma specialmente mezzo principale di denuncia sociale in grado di smascherare le imposture, risvegliare le coscienze e accendere le speranze di un intero popolo da troppo tempo in lotta per il diritto di autodeterminazione e per la libertà».
Ecco, qualcosa di inconcepibile in Italia, dove il poeta è marginale e azzoppato nella possibilità di far da guida a un Paese.
Sarà per questo che il nostro Giuseppe Conte guarda al mondo musulmano da cui è ricambiato con grande considerazione? Per questo ancora tenta di lanciare la sua parola come lanciasse un incantesimo capace di avvincere la mente di quei pochi che hanno voglia di ascoltare? O sarà forse per tale folle e audace desiderio mai spento che scrive i suoi divertenti e indignati “controgiornali” feisbucchiani?
È passato molto tempo dall’ultima volta che in Italia un poeta ha contato qualcosa.
Non così in Iran, dove già negli ultimi decenni del 1800 la poesia ha accolto tra le capaci braccia dei suoi versi istanze nuove che ha saputo declinare. È stato Nimā Yushij a fare da ponte tra ieri e oggi, svecchiando la lingua, abbandonando la forma classica della rima e facendo consuonare forma e contenuto nella elaborazione inedita della tradizione classica. Da quel ramo sono emersi Shāmlu, Sāles, Sepehri e Farrokhzād (è dell’anno scorso la restituzione di Domenico Ingenito per Bompiani, Io parlo dai confini della notte). Quest’ultima ha aperto le porte alla metà dell’universo più in ombra, raccontandosi con una scrittura «passionale, carnale, intimista e spregiudicata che testimonia le emozioni e i desideri di una giovane donna in cerca di libertà espressiva. Una donna impegnata ad affrontare le ingiustizie e le restrizioni morali e religiose derivanti da una cultura maschilista e misogina». Una poesia, la sua, che però sempre rabbrividisce in una febbre di vento in cui si insinua un elemento perturbante. Così in questi versi di Il vento ci porterà via (che ha poi ispirato il film di Kiārostami), in cui l’ignoto sembra quasi assumere un volto e appare dietro la finestra, in pena per l’essere umano:
Nella mia piccola notte, ahimè,
il vento ha un appuntamento con le foglie.
Nella mia piccola notte
c’è ansia di declino.
Ascolta, senti il soffio delle tenebre?
Qualcosa attraversa la notte,
rossa e inquieta è la luna.
Lassù, nel cielo
dove ogni attimo si teme il crollo,
la luttuosa folla delle nuvole
pare attendere l’istante della pioggia.
Un attimo, poi più nulla.
Dietro la finestra trema la notte
e la terra smette di girare.
Dietro la finestra l’ignoto
è in ansia per noi.
Oh, verde freschezza, metti le tue mani,
come brucianti ricordi,
tra le mie mani innamorate,
abbandona le tue labbra,
come un tocco di vita e di calore,
alle carezze delle mie labbra innamorate.
Il vento ci porterà via,
il vento ci porterà via.
E il vento di rinnovamento ha portato, tra le onde degli anni, anche i poeti degli anni Duemila. Questi ultimi sono riusciti, nonostante il bavaglio della censura Pahlavi, a far sentire forti le loro voci.
Ecco allora Ziyā Movahhed e la splendida “Sulle acque morte della perla”:
Incisero il tuo nome sulla terra
e la terra fu trafitta.
Quando il cavallo della notte attraversa
a sella rovesciata le steppe del dolore
una moltitudine di cantori bisbiglia:
«Fiume, fiume delle foreste d’autunno,
molte volte in te abbiamo toccato l’abisso».
Ah questa remota eco
lira del vento e della foresta
forse è il riverbero di quel rosario delle notti
stretto nelle mani della madre.
Veniva dagli anni della fame
con il notturno filo delle lacrime
tagliato sulle acque morte della perla:
«Oh anni, mai più possiate tornare!»
Ma gli anni tornarono
e d’un tratto quel cerchio curvo
scivolò sul bastone e restarono
la terra e la spira del dolore.
Il cavallo tra le foreste
la notte nel cerchio nero del rosario,
una moltitudine di cantori bisbiglia:
«Oh tu, più antica ferita»
E la notte attraversa la ferita.
Tra i poeti del Duemila anche il già citato regista Abbās Kiārostami che come per un regalo del desino ti è apparso in un pomeriggio romano, in una delle tue vite precedenti, portato a te dall’amica Irene Bufo che ne era confidente italiana.
Alle sue parole limpide, modellate sulle forme brevi dell’Haiku (e pensando ai suoi film, altre opere poetiche), il compito di chiudere questa tua breve ricognizione per salutare la nascita dell’opera tanto bella curata da Faezeh Mardani e Francesco Occhetto, bravissimi:
Dalla feroce sorte
il rifugio è poesia
dalla crudele amata
il rifugio è poesia
dalla palese tirannia
il rifugio è poesia.
Lo specchio
Poesia
Mondadori
2024
444 p., brossura