Parlare ultimo, la poesia di Massari
Di Rossella Pretto
Certi libri ti accompagnano nei momenti più oscuri. Ognuno ha un destino, un messaggio da recapitare. E parleranno quando sarà il momento.
Avevi da tempo con te Parlo ultimo, l’autoantologia poetica di Stefano Massari che riunisce le prime tre raccolte ormai introvabili, pubblicata da Industria & Letteratura nella collana Reloaded diretta da Gabriel Del Sarto e Niccolò Scaffai (2024, pp. 146, euro 15). L’avevi con te e ti intimoriva. Non riuscivi a spiegartene il motivo: perché non ti decidevi a dirne qualcosa?
Lo portavi in borsa, si era anche tutto bagnato e poi asciugato nel sole di una mattina autunnale mentre parlavi dell’ambizione di non dar credito alle macerie, tra le colonne di san Lorenzo che ti davano slancio. Rinviavi il momento.
È così che il 30 dicembre hai detto basta, ora basta. E ti sei messa a leggerlo e rileggerlo, a trafiggere il testo con la matita, ogni parola un segno, e andare avanti e indietro cercando ciò che doveva dirti.
Doveva consegnarti la notizia della morte del padre.
Portava questo con sé.
E allora quel tardo pomeriggio cercavi di non pensare al peggio e tenevi il libro in mano, ti aggrappavi a lui, a quelle parole. Ma già le prime facevano così:
ha il torace spaccato . il ragazzo del pane . e parla coi cani .
che l’inverno ha portato acqua buia quest’anno . e una preghiera
soltanto . di morire nel mare . disarmato e innocente .
senza rabbia tra i denti . e le mani in fiore .
ed era tutto così vero e reale che ora non sai fartene una ragione. Te ne stavi lì, sul picco calvo di una rivelazione dove tutto cantava stritolando il respiro.
canta il dolore . e non basta .
scrive Massari, perché neanche il dolore basta, talvolta. Non c’è molto da dire. Bisogna attendere per poterlo fare. Dire della guerra, qualunque sia, quella che interseca diario del pane del 2003 dov’è il distico che viene spesso citato:
non sono nato per obbedire o disobbedire
sono nato per dare e chiedere ascolto
e allora bisognerà attaccarsi alle parole, ripeterle, rimodularle, ricombinarne una manciata perché possano provare a farsi appiglio e mettere in quadro una vita, la vita, la morte, tutto insieme, come dati, fenomeni che possono piegarsi a essere detti in una forma, la specifica del poeta, perché è il poeta, quello specifico, a testimoniare la sua, che viaggia tra le righe e diventa tua.
Tutto è nero, qui, c’è l’inverno, la guerra, gli allarmi, il male, la rabbia, gli urli, la fame, ci sono le mani, i chiodi, c’è un che di sacrificale, il pane, un dirsi delle cose per ossimori da cui sgorga l’unica possibile restituzione di un sacro che sbrana, la violenza primordiale di una purezza che ha i denti aguzzi a rendere delle cose l’essenza dilaniata. C’è una crudezza che permette l’esperienza dell’impuro, dilagante, e la mostra nelle crepe della contraddizione. È tutto spoglio e, nel graffio nudo, il mondo appare scarnificato ed esposto all’urlo. In questo scenario, però, resiste il canto: con questa parola si chiude diario del pane:
la morte pura . ostia nera . senza incanto .
il nome tuo soltanto . rimasto in gola . senza scampo .
prego ora . per un tempo di luce . sopra l’urlo tuo .
appeso al labbro . prego di restare vivo . dopo il tuo deserto .
prego la terra che ci muore addosso . ancora un altro anno .
altro ferro dentro il pugno . ancora un canto .
«prego per restare vivo», dice il poeta. E sì, la raccolta successiva si intitola libro dei vivi (2006): «dedicato a chi nasce / e chi resiste». Diceva Osip Mandel’štam che«nella vita della parola è arrivata un’era eroica. La parola è carne e sangue, condivide la sorte della carne e del sangue: la sofferenza. Gli uomini hanno fame. Più degli uomini ha fame lo Stato. Ma qualcosa ha ancora più fame: il tempo. Il tempo vuole divorare lo Stato». Ed è qui, nel secondo libro, che Massari parla ultimo:
parlo ultimo dal basso con labbra secche e fiato di bestia
Nel libro dei vivi si vede bene quanto la poesia di Massari viri, quanto il suo immaginario si imponga, onesto, ma infiltrato dalle tentazioni del bene. Ecco allora dalla serie “della pelle del dio”, nella sezione 3:
il male di non restare innocenti e disobbedire
costruire una casa con questa pelle di padre
e tenere vivo il sangue e sempre oltre i muri
le città le stragi le terre in rovina
i terrificanti mari
sei tu questa pena ogni giorno di avere ancora fede
nel corpo nel gesto di bere assieme mani e memoria
e dire paura ogni volta che viene senza mentire
sentire i morti tossire le braccia amiche mancare
la terra intera respirare sei tu che lo chiami bene
lo chiami seme dimmi che odore fai dopo il male
c’è un obbligo di fede, un bisogno più forte che si affaccia (sempre scorticato, esatto, nella carne viva abrasa), un amore che si origina dal dolore inaggirabile e diventa ingiuria, bestemmia – in cui si deve però leggere lo scandalo dell’umano. La caccia esistenziale per resistere (testimoniata dalla sezione intitolata alla volpe) si apre ora al dovere testimoniale che consegna vita di padre in figlio, e implica protezione, implica che la rabbia intramontabile si faccia steccato al cui interno si possa custodire il mistero della vita che transita tra uomo e donna, e stordisce, vita che non può morire, non può spegnersi nel momento in cui il figlio si stacca dal ventre e nasce. Bisogna restare e firmare il libro dei vivi. Bisognerebbe farlo sempre. Ma non è per sempre. Sarà ora, per sempre ora. Sarà parola. O ripetizione. Finché ce ne sarà la possibilità. Finché si potrà puntinare il silenzio di suoni. Solo a opera compiuta, a racconto ultimato (parlo ultimo), parlerà il silenzio, Silence will speak, diceva Karen Blixen. Cosa che, come scrive Villalta in postfazione, Massari pensava di aver fatto chiudendo la terza raccolta, serie del ritorno, tre anni dopo ancora, nel 2009. Ripartendo dall’inizio, dalla stessa vena aperta. «la morte che dovevi conservare che dovevi tossire / paziente come l’attesa dei laghi che dovevi pregare / in posizione di violenza e comprensione per restituire / ai padri corpi di figlio senza circoncisione senza colpa / senza generazione». Per poi concedersi il congedo, dove «comincia il lungo silenzio della luce», ma anche dove è contenuto ogni ritorno e dove la ruota non si arresta. Dove germina la potenza e la possibilità, nell’evanescenza, nel compiersi appunto della luce.
E sì, allora forse Parlo ultimo doveva dirti anche questo, dirti il ritorno, dirti di come tutto svampi e rimanga latente. Ma che poi, un giorno, l’impuro riprenderà. E sarà di nuovo carne. Anche nella nostalgia incrinante del seme sparso e disancorato:
ovunque tu sia una parte esatta del mondo danza
una parte esatta del muro terrestre compie l’ordine del seme
una parte esatta del figlio cresce in un cerchio di mani oneste
unite per fede e disciplina del tutto ora riposa finalmente
hai la ferita terrestre sul fianco ora puoi stare nell’abisso
capire perché dentro mi batte ogni tuo passo allarme respiro
ogni strumento vivente ogni destino
Poetica
Poesia
Industria & Letteratura
2024
146 p., brossura