Tra le righe dei naufraganti, Ariano-De Falco
Di Rossella Pretto
Ne percorri i cunicoli abbacinanti – dall’alto è solo crepa – seguendo il filo spezzato delle voci (non prevede uscita, il labirinto). Si accalcano negli incroci, si sfiancano fino a svellere le identità – una e collettiva, nel bianco impossibile del crollo. Alto un cielo che arranca, così azzurro nel modello che rincorre e ti dice l’anelito, o forse solo il ricordo. Ma presto gli occhi si stancano e tornano al magma del bianco, della voce che dice e racconta e memorizza e affianca, l’uno all’altro, i fatti, la storia, gli abissi di un reale in-credibile. Ciò che accade. È accaduto. E riaccadrà, nel profilarsi ancora del paradigma, nel suo rifarsi.
È così che vedi I naufraganti, poema a quattro mani scritto da Luca Ariano e Carmine De Falco per Industria & Letteratura e ospitato nella collana Extra Moenia diretta da Filippo Davoli e Gabriel Del Sarto (2025, euro 12), lo vedi come il Cretto di Burri che ha marmorizzato le rovine di Gibellina. Sono incastrate lì le storie, è lì l’umanità tutta, è dove scivola e si disarticola e per sempre sussurra e ricorda e addita quel male che è il peso morto della storia, secondo Gramsci citato in epigrafe (e nume tutelare), e cioè l’indifferenza. L’indifferenza che macina e tritura e assomiglia e svampa. Quel niente che fa crollare il cielo sfranto, lo infossa nel caos delle vie che sono strappi del cemento.
Ariano e De Falco si ritrovano, dopo Resistenti (d’If 2012), a scrivere insieme per riprendere le fila di un discorso collettivo d’impronta politica e dai toni civili.
«Le bandiere della pace, le abbiamo alzate, tenute, anche strappate, lacerate, annerite dopo qualche anno da tutto lo smog assorbito nelle capitali. Le abbiamo portate a mano nelle piazze. Era un marzo del 2003. Sembrava impossibile, a noi polacco, irlandese, svedese, a noi spagnolo, tedesco, francese, che l’Europa fosse questa, che lo si permettesse. La bandiera s’alzava, proteggeva l’ideale, ci faceva grandi e uniti».
Dal puzzle dei loro versi, alternati in alcuni casi alla prosa, emerge la mescola dell’oggi in un presente eterno che accasa tutto e tutto equipara, anche se sembra sempre la prima volta, come col covid, il lockdown, l’entrata nei Campi, gli abomini, la guerra che è sempre nuova e ricomincia vecchia, e tutto si assomiglia, è Belgrado e Sarajevo, Do you remember Sarajevo?, il documentario cucito con le immagini che i cittadini filmarono invitati dal sindaco a riprendere le atrocità di cui erano vittime, è il Sarajevo War Theatre di SARTR, è ciò che si può fare, ciò che si poteva, è la guerra in Europa già da tempo, non ricordi?, è oggi, è Gaza e una madre che tenta di tenere un figlio al riparo – non vedi che sono fuochi d’artificio? -, sono i naufragi, si direbbe della speranza ma sono proprio i corpi a naufragare, è la fila degli annoiati, è la coda dei cadaveri che dovranno trovare posto, ammassati e bruciati ancora, sono i braccianti di un tempo che adesso sono rider, anche loro assiepati nella piazza «in attesa di una chiamata da poco, / una corsa per non rimanere a digiuno»
C’è una vena di rimpianto (un avamposto di nostalgia, come per Chacaltaya, in Bolivia, il complesso sciistico più alto del mondo, a più di 5000 metri, che però il surriscaldamento globale ha disciolto – «folklore è quel che resta alla fine della neve»), sono i ricordi che sgusciano impertinenti, e l’oggi si appaia a ieri, confligge e si sversa nella mente, si stende tra i versi.
Ma davvero siete gli ultimi
ad aver visto quelle stagioni?
Ancora ricordi i cumuli di neve,
tuo padre a spalare per uscire
e l’attesa della primavera
un volo di uccelli migratori.
Dove sono quei riti millenari
della terra e feste da celebrare?
Ci pensi sotto quella bomba di grandine
che mitraglia il tuo tetto, acqua
nelle fessure di legno di una notte insonne.
Vi regalerete le vostre ore
e quel timore un pensiero da scacciare
come la carezza di una madre
su una fronte di febbri e malanni.
Ardono foreste di popoli scomparsi, lingue,
tradizioni e animali estinti
impagliati da qualche Bottego
in fotografie di seppia.
Loro mai si ripresero dall’inverno
contano amici scomparsi:
nessuna preghiera li placherà.
Eppure poco prima si era detto:
ce la caveremo in un modo o nell’altro,
basterà solo toccare il fondo e risalire su
netti, radicali.
Epperò, forse niente basta. Perché in fondo, dicono Ariano e De Falco,
Non ci siamo poi mossi di tanto
dalla rivoluzione industriale
spostate forse le cose
ma la cultura
non serve che a renderci lieve il dolore
Il presente ha portato un futuro annichilente, ha insediato l’inumano nell’umano:
Sarà l’ultima guerra di bombe
e tank alle frontiere:
cyber guerrieri programmati,
colpi chirurgici a depredare case,
cretti di carne umana.
Non ci saranno più spermatozoi
feticci bruciati dalla chimica.
Bisogna farci i conti e pensare che «È quando ci scordiamo della storia / che siamo condannati ad ogni aggravio». Però, appare fin da subito evidente che:
Vi siete assuefatti alle sirene
– senza rifugi ipogei –
ma l’unico antidoto ritrovarsi
in un biondo abbraccio
nel cuore di un Inverno funesto.
Ecco, come troppo spesso dimentichi, tu e tutti, è questo l’unico antidoto. Un rimedio che, a differenza di quanto asserito sopra (e cioè che la cultura serve solo a rendere più lieve il dolore), bisogna estrarre dal nucleo velenoso della realtà per ritrovarsi a schiena dritta, resistenti e consapevoli, ma proprio per questo capaci, pur nella catastrofe, di abitare «un biondo abbraccio».
Extra Moenia
poesia
Industria & Letteratura
2025
72 p., brossura