Marcello Chinca ha svolto la professione di avvocato per venti anni sino al suo ritiro nel 2007. Svolge ora l'attività di critico letterario e d'arte. Scrittore

Haij Alì (Mumbay)

Di Marcello Chinca

Una domenica Najma lo condusse alla Moschea di Hajji Alì, situata su appena un lembo di roccia, unito alla terraferma da un camminamento che l’alta marea avrebbe sommerso a partire dal tramonto. Entrambi si fecero cingere con ghirlande di gelsomino, cambiano qualche rupia in monete, quindi s’avviano per il sentiero con una certa titubanza, sommersi dalla moltitudine.

Lui non l’aveva previsto: lungo tutto il sentiero, sui due lati, si stagliano allineati i disperati della terra: lebbrosi, storpi, mutilati, paralitici, deformi, ma anche fachiri e Sadhu. Chi in piedi chi accovacciato, scorrevano come in una carellata davanti ai loro occhi, l’uno dopo l’altro, ciascuno con un’espressione ferma e dignitosa, senza mai azzardare alcuna richiesta. A ciascuno i due porgevano uno spicciolo, per passare al prossimo. Tutti ringraziavano, chi congiungendo le mani, chi recitava un breve mantra, chi vi raggelava con uno sguardo velato dalla fame o dalla commozione. Progressivamente sfilarono al lato di quei derelitti senza più fermarsi. Ansiosi solo di raggiungere l’isola al termine del camminamento che era in verità una Via Crucis.

A metà del percorso si fermarono, ci fu un istante di panico, Najma vide che lui aveva pianto, e subito per pudore deviò il suo sguardo verso l’orizzonte. Per un po’ se ne stettero così, senza dire nulla, lui che a stento tratteneva i singhiozzi. Najma lo riguardò, attese che la sua commozione si placasse, suggerì di tornare indietro, lui replicò con un filo di voce che dovevano giungere alla Moschea. Lo sentiva come un adempimento da onorare a tutti i costi.

Dabbasso un Sikh col turbante nero e la barba lunga sul petto, le braccia e spalle vigorose, li stava osservando, l’espressione fiera e marcata nell’insieme curatissimo della barba e del kajal intorno agli occhi neri e lucenti. Gradatamente i due capirono che l’uomo recava di sé unicamente il tronco eretto sul selciato. Lui ricambiò i loro sguardi stupefatti con un sorriso di consapevolezza e di fraternità tali da metterli in un imbarazzo totali, tale era lo stridore di quel contrasto tra la miseria di quella condizione e la fierezza nobile che gli sopravviveva.

Il Sick non smise di fissare il giovane, era senza dubbio conscio del suo stato d’animo, quando il giovane gli mise sul piattino di rame rastremato una banconota di cinque rupie, il Sikh chinò la testa, socchiuse gli occhi risaltati dal Kajal. Poi fissò il giovane negli occhi, riconoscente, congiungendo le mani.

Quando giunsero alla Moschea, non c’era nessuno sulla spianata, deserta, livida del tramonto incipiente, nel sentore languido delle onde frangenti sui bastioni e i richiami continui di mille corvi e gabbiani. Dal muraglione aleggiò sui loro volti una brezza sfratta di salsedine e putrefazione. Fu allora che gettarono in acqua le loro ghirlande di gelsomino. Le videro fluttuare e disfarsi sulle onde assieme ad altre bianche, arancioni, rosse.

Sino a che il Sole sparì all’orizzonte entrambi seguirono il moto bizzarro di quelle ghirlande sulla superficie del mare imbrunito e bronzeo, l’Oceano Arabico pareva un’enorme macchia d’olio interrotta da una remota petroliera all’ancora quasi indistinguibile nella foschia rosa.

Ancora senza dirsi nulla, perchè inutile parlare entrambi ritornarono a passi lenti, no, non si sentivano più uomini, qualcosa aveva estirpato da loro quest’appartenenza al genere umano….tutto pareva troppo dispendioso, la vita stessa un dispendio inesausto di forze ed energie, quando tutto in loro s’era come infranto…

L’immagine di copertina, che riporta la moschea, è presa da wikipedia