Il mio rivenditore di dischi ed amico mi dice: “Senti questo disco e, se puoi, scrivici qualcosa su”: eccoci qua. Cosa c’è di così particolare in questo disco spartano? Il fatto che la band è un gruppo della provincia di Viterbo (incredibile no?) composto da quattro elementi: Andrea Barboni (chitarra e voce), Giacomo Pomi (elettronica e sintetizzatori), Dino Manoni (basso e cori), Edoardo Placidi (batteria), questo è il Movimento… Nove composizioni che hanno come sponda in taluni aspetti incazzatissimi IL TEATRO DEGLI ORRORI, ed in alcuni passaggi qualcosa del cantato dei Massimo Volume (due dei nostri cinque migliori gruppi) ma loro riescono ad essere notevolmente personali. “Non è vero che crescendo le cose si sistemano è solo che sopportiamo meglio il dolore”. Constatazione amara che fuoriesce come sangue rossissimo dalle note della bellissima “Autunno”, cantata e suonata benissimo, debordante, slabbrata, dal testo feroce e nitidissimo: una sorta di Bibbia della comportamentistica da tenere per mantenere un finto profilo basso nella società di tutti i giorni. La solita vergogna insopportabile ma “Te l’hanno detto mai che se non cadi davvero non ti rialzerai”. “Quando ero bambino mi divertivo ad urlare dentro un cuscino”. Questo pezzo ha una forza inusitata quasi belluina, è secco e tagliente, una grande cosa! Il lavoro della voce e dei sintetizzatori ottimo. “Il meglio è passato” è una galoppata arrancante, tosta, “Passo le ore per strada da solo, lo sguardo basso, mani in tasca e fumo”. Madre, che vita che ci si staglia dinanzi! “Per guarire quel senso di vuoto che sento nell’anima, per guarire quel senso di vuoto che sento”. Voce, batteria e sintetizzatori debordanti anche qui. Non si riesce a trovare un riferimento tranquillo cui agganciare quello che il quartetto fa. No mercy=nessuna misericordia. Un altro grande brano, duro, con un grande lavoro pure del basso, davvero un pistone incredibile. Il sintetizzatore, maestoso e splendido, introduce una song da brividi, “Non siamo”, una cosa che fa venire i brividi dietro la schiena. “Siamo la generazione dei figli mai padri. Indietro un passato che non ci appartiene”, tutta la rabbia ma pure la lucida rassegnazione di una generazione che non si può…! Questo è il terzo di tre pezzi consecutivi assai belli: qui le percussioni sono elettroniche ed il synt continua a scavare con grande forza e solennità. Ma è un presente cupo “Non c’è spazio tra i libri di storia e ce ne andiamo. Quale scelta ci aspetta? Forse solo l’ultima nostra scelta”. Tra il nulla prodotto da personaggi squallidi della vita di tutti i giorni ed il terrorismo agganciato ad una fede per finta ma forte, così tanto da squassarci la coscienza. “Respira” ti spinge la testa con forza sott’acqua: “Siamo sepolti qui sotto metri di malinconia ed aspettiamo così qualcuno che ci porti via”. Le linee schizoidi della chitarra e del synt, la voce con una drammaticità pazzesca fanno sudare se l’ascolti con attenzione. “Respiriamo ancora noi. Non serve piangere”. Qui la forza e la quantità del suono, assieme ad una corsa forsennata della voce e degli strumenti, lasciano senza fiato. Si fatica a respirare. E’la disperazione lucida. Quel che colpisce nel disco è che, fino a qui, non c’è un brano scontato ma tutti, pur diversi, hanno una rabbia ed una forza dentro non comuni. La voce è nervosa, tesa, ricca di forza compressa. Il basso e la batteria sono, oserei dire per questo suono, strepitosi. Ciliegina su tutto, le sbuffate ed i bordoni di sintetizzatore, suonato con una forza che non udivamo dai tempi di Fariselli (AREA) o della prima Premiata Forneria Marconi. “Un minuto”, narrazione di tutto quello che può accadere in un minuto, magari esagerando un po’. Breve, troppo breve e monotematica. La cosa che mi piace meno fin qui.
“Sempre lo stesso sogno” è convulsa, disperata nell’analisi di una realtà che non ha sbocchi; la voluta compressione del suono si distende nel riff guidato dal magnifico sintetizzatore. “E meno male è un altro giorno, è come un viaggio di andata senza biglietto. Sempre lo stesso sogno”. Il riff resta impresso nella testa a lungo. Urlata con grinta infinita, di corsa, come tutto il resto del disco ma, proprio per questo piacciono. Il sintetizzatore qui veramente è favoloso. E’rock progressivo ma pure realtà quotidiana trasferita sul linguaggio sonoro del rock. Un altro brano centrato. “Non è finita” chiude il disco. Percussioni elettroniche, sbuffate di synt in sottofondo, basso metallico, ballata triste piena di consapevolezza. “Lo so che farà male, ma devi imparare a lottare, almeno un po’”. Deborda di romanticismo questa song, ma riescono comunque ad essere credibili, pur in un contesto sonoro inferiore alle splendide perle dalla terza alla sesta canzone del disco che ne costituiscono il non discutibile vertice sonoro. Qui, sono sufficienti. All’inizio del disco, “Overture” è quello che poi si ritrova in conclusione: un’oscillazione elettronica piena di fascino liquido. E “Io non sono (a) normale” è un rock anfetaminico stile Teatro degli Orrori ma con un basso che ricorda quello di Simon Gallup dei Cure. I testi sono feroci. “Ma tanto normale o anormale che differenza fa, se quando chiudo gli occhi non c’è niente che non va!”. La scansione ritmica è il punto felice del brano.
Conclusione: i ragazzi sono bravi e vanno sostenuti. Suonano e cantano bene. Esprimono perfettamente quello che c’è in giro. Disco ottimo. Italiano, ma suonato con verve albionica. TRE STELLE E MEZZO.
Musica italiana
2016